Matt aveva sempre dimostrato di possedere un senso di meraviglia distorta verso i meccanismi di potere e di controllo. All’età di undici anni, era un ragazzino solitario e scontroso, le cui uniche, singolari, passioni erano l’informatica, il linguaggio della programmazione e, sebbene i genitori si rifiutassero di ammetterlo, un senso innato di sadismo.
La madre Louise gli intimava spesso di uscire dalla sua cameretta, per giocare in giardino o con qualche vicino di casa, ma ogni volta Matt la cacciava via con un brontolio infastidito e un cenno della mano. Il più delle volte lei si limitava a osservarlo sull’uscio della stanza, con la spalla poggiata allo stipite della porta, immerso nel buio, il volto illuminato dallo schermo verdognolo del monitor. Né il padre né la madre riuscivano mai a capire cosa stesse combinando con quell’aggeggio infernale.
In una giornata estiva particolarmente torrida, il ragazzo diede ascolto al consiglio della madre, più per noia che per obbedienza, e si recò in giardino con nient’altro che una lente d’ingrandimento trovata in soffitta. Rannicchiato sul prato, circondato dai nani da giardino che la madre aveva comprato in super sconto al mercato dell’usato, aveva osservato per ore un’interminabile fila di formiche marciare in maniera perfettamente ordinata dietro la loro regina. Come un puma in allerta per cacciare la propria preda, Matt aveva atteso immobile che le formiche facessero ritorno nel loro formicaio, chi sorreggendo una briciola di pane, chi un filo d’erba esageratamente grande per il suo minuto ma forte corpicino. Avendo calcolato l’altezza perfetta del sole per scaldare con i suoi raggi il punto in cui era seduto, l’undicenne aveva colto il momento esatto e inclinato la lente in modo tale da riflettere la luce direttamente sul formicaio. Con pazienza e fermezza di polso, aveva aspettato la riuscita del suo piano: dopo un’attesa che alcuni avrebbero definito infinita, ma che Matt non sentì affatto, complice l’inesauribile brama di vedere cosa sarebbe accaduto, il formicaio prese infine fuoco.
Louise e Carl, suo marito, lo ritrovarono poco dopo, gongolante e immobile di fronte al suo capolavoro: per la prima volta dopo mesi, sembrava sorridere. Gli sguardi dei nani da giardino attorno a lui parevano inorriditi, circondati da un cimitero di formiche, alcune già carbonizzate, altre ancora agonizzanti sotto le flebili lingue di fuoco. Ciò che aveva scaturito in Matt una tale gioia, la qual cosa i genitori non riuscivano a spiegarsi, era il pensiero che tutte quelle creature si fossero piegate al suo volere, giungendo in massa nel luogo che lui aveva prestabilito, e subendo impassibili la sua punizione: si era sentito Dio, il padrone dell’universo.
L’indomani sera, come scusa per festeggiare il suo compleanno, ma con la reale intenzione di parlargli del preoccupante evento del giorno precedente, decisero di portarlo a mangiare in un ristorante in centro. Attirato dal desiderio di patatine fritte, dopo non poche discussioni, Matt acconsentì infine a cenare fuori con i genitori. Non sapeva ancora, tuttavia, che quella sera la sua vita sarebbe cambiata.
Una volta sedutosi al tavolo, Carl tentò invano di iniziare la conversazione, ma il giovane si schermò il viso con il menù e finse di esserne interessato. Rimase tuttavia incuriosito da una parola francese in fondo al menù, cosicché domandò ai genitori cosa significasse. La parola era: foie gras. La madre, temendo che la verità avrebbe alimentato ulteriormente il sadismo del figlio, fece per inventare un significato e addolcire la pillola, ma il padre volle essere brutalmente onesto.
«Si tratta del fegato dell’oca, che viene fatto ingrossare da un’alimentazione forzata, spesso con del mais, attraverso un tubo in gola, in modo tale che ingrossi sempre di più e risulti più gustoso. In Francia è una prelibatezza».
Sotto lo sguardo stizzito di Louise, Matt rimase immediatamente affascinato da questo concetto, a tal punto che decise di ordinarlo per cena. Lo trovò delizioso.
Durante le successive settimane, il concetto alla base del foie gras gli rimase impresso nella mente: come si poteva costringere una creatura dotata di cervello, istinto e volontà, a consumare qualcosa controvoglia e ripetutamente, fino a deformarsi, trasformando la propria sofferenza in piacere per coloro che la torturavano?
Crescendo, Matt non dimenticò mai il foie gras mangiato quella sera, e coltivò ogni giorno la sua passione per l’informatica. Isolato tra le mura della sua cameretta, ma con il feroce desiderio di lasciare il suo segno nel mondo, privo di amici durante l’adolescenza, trovò nella logica dei codici informatici un’arma e un rifugio. Seguì delle lezioni professionali e imparò alla perfezione il linguaggio della programmazione. Venne definito da più insegnanti “un vero e proprio genio”, perciò non ci fu da stupirsi, quando passò al primo colpo la selezione per l’iscrizione alla più prestigiosa università di informatica dello Stato.
Durante gli anni del college, Matt non mitigò il suo atteggiamento schivo e solitario. Al contrario, si chiuse in sé stesso e si trovò a vivere il completo isolamento sociale ancor prima della pandemia che lo avrebbe reso obbligatorio per tutto il mondo. I corridoi dell’università, affollati di coetanei che si muovevano in gruppetti, sghignazzando rumorosamente e scambiandosi confidenze, apparivano a lui come una giungla ostile. Matt era troppo timido per inserirsi, troppo cinico per cercare di adattarsi, e troppo intelligente per passare inosservato. Se durante le lezioni si dimostrava il primo della classe e veniva spesso lodato dai professori, nei momenti ricreativi i colleghi non nascondevano affatto la loro avversione nei suoi confronti. Ben presto si ritrovò escluso da ogni comitiva, osservatore silenzioso del mondo, piuttosto che un partecipante.
Dopo mesi di silenzi nei corridoi e pause pranzo solitarie nella mensa, Matt cominciò a notare, soprattutto perché era il primo a viverle sulla propria pelle, alcune dinamiche comuni a tutti gli studenti, quelle dell’inclusione e dell’esclusione. All’interno del microcosmo universitario risultava fondamentale far parte di un gruppo, sentirsi inclusi e apprezzati, ma la barriera tra chi stava fuori e chi dentro era sottilissima, e bastava un errore da poco – una combinazione non azzeccata di vestiti, una battuta fuori luogo, una conoscenza, anche lontana, di qualcuno di quelli “fuori” – per scivolare dall’altra parte e trovarsi completamente solo. Matt comprese che la solitudine non era una sua esclusiva, ma il risultato di un sistema sociale che premiava i conformisti e puniva gli outsider.
Chiunque altro avrebbe trovato un modo per integrarsi nel sistema, al costo di snaturarsi pur di far parte di una qualche comitiva, ma Matt era diverso, lo era sempre stato. Lui, che aveva sempre amato osservare il mondo dall’esterno, osservare le formiche ammucchiarsi con una lente di ingrandimento, per poi ottenere il pieno controllo su di loro e avere persino il potere di distruggerle, capì che la soluzione era ben diversa da quella che chiunque altro avrebbe trovato.
Una notte invernale, chiuso nel dormitorio, avvolto da una calda felpa grigia e illuminato dal pallido bagliore dello schermo del suo portatile, come soleva fare fin dalla tenera età, scrisse le prime righe di codice di un’idea che avrebbe cambiato la sua vita, e quella di milioni di persone. Quella notte diede vita a Duck.com, una piattaforma online – che ben presto avrebbe preso il nome di social network –, creata per abbattere il muro della solitudine.
In pochi giorni, Duck divenne l’argomento più discusso del college: tutti volevano entrare a farne parte, diventare “amico” l’uno dell’altro, interagire, pubblicare, condividere. Gli iscritti alla piattaforma furono decine, poi centinaia, migliaia e infine, alla fine dell’estate successiva, Duck divenne il primo social network a raggiungere il milione di utenti. Nel frattempo, Matt si era laureato con il massimo dei voti e aveva continuato a lavorare alla costruzione della piattaforma, espandendo il team di programmatori e aprendo la prima sede ufficiale dell’azienda.
La piattaforma, nella sua versione iniziale, era un luogo accogliente, semplice, intuitivo, e, soprattutto, prometteva agli utenti ciò che a Matt e a quelli come lui era sempre mancato: un senso di appartenenza. Ben presto, tuttavia, comprese che la chiave del successo di Duck non era dato dalle connessioni e dalle amicizie che si potevano creare: le persone tornavano solo dove vi era conflitto, tensione, astio. Matt programmò l’algoritmo in modo tale da privilegiare contenuti polarizzanti, commenti negativi e discussioni. I post che generavano invidia, odio e indignazione risultavano quelli più cliccati e venivano spinti sempre più in alto, poiché tenevano gli utenti incollati alla piattaforma, alimentandola con il loro livore. Proprio come il foie gras, pensò: per permettere a qualcosa di crescere, è necessario alimentarlo continuamente.
Duck crebbe a ritmi vertiginosi. Gli utenti si iscrivevano poiché attratti dall’illusione della comunità, ma restavano solo per le provocazioni e i contrasti. Il creatore osservava soddisfatto i numeri crescere esponenzialmente, come un esperto burattinaio: ogni nuovo utente, ogni litigio, ogni clic non era altro che un ulteriore chicco di mais per ingrassare il sistema. Più Duck prosperava, più Matt si arricchiva: entro la fine dell’anno successivo alla laurea, divenne il più giovane miliardario della storia.
Da creatura invisibile spiaccicata silenziosamente sulle pareti dei corridoi universitari, Matt era ora tra le persone più cercate, intervistate, ammirate al mondo: le notti trascorse a programmare nel buio della sua stanzetta avevano presto ceduto il posto a party esclusivi, mentre i silenzi opprimenti erano stati soffocati dal frastuono di meeting aziendali, dalla musica martellante delle discoteche, e dalle risate sguaiate di persone superficiali che Matt sceglieva accuratamente per riempire il vuoto assordante della sua mente. Il ragazzo che un tempo osservava in disparte i gruppetti di studenti ridacchiare spensieratamente, era ora il sovrano di un impero costruito esattamente su quelle stesse dinamiche di esclusione e confronto.
Esattamente come aveva previsto, Duck si era tramutato in una gabbia dorata per milioni di persone: un luogo impalpabile in cui le emozioni venivano forzate, alimentate e consumate, ingrossando l’algoritmo come il fegato di un’oca, destinato a crescere sempre di più, fino a diventare foie gras. Chi era l’unico fruitore di tale prelibatezza? Il giovane Matt, ormai divenuto arrogante e fanfarone.
Quando esplose la pandemia, Duck era ancora il social network più utilizzato al mondo, il regno egemone della comunicazione globale. Il virus divenne rapidamente uno dei temi principali discussi sulla piattaforma, alimentando ulteriormente la macchina costruita da Matt: discussioni sui sintomi, presunte cure artigianali, teorie del complotto sui vaccini si moltiplicarono senza sosta. A questi si aggiunsero video che immortalavano uomini e donne nel momento della metamorfosi, tra i quali risultava quasi impossibile distinguere i veri da quelli falsi.
Nell’era moderna, i social network avevano ormai sostituito i giornali come principali fonte di informazione. Tuttavia, come è facilmente prevedibile se si affida l’onere dell’informazione a una smisurata quantità di persone inesperte, spesso dilagava la disinformazione, sommergendo la verità come uno tsunami. Seguendo il medesimo principio progettato da Matt anni prima, la verità era secondaria, mentre ciò che contava davvero era mantenere gli utenti connessi, incollati al feed e fin troppo occupati a discutere e provocarsi l’un l’altro per accorgersi dell’infondatezza dell’argomento dibattuto.
Non vi è da stupirsi dunque, se la reazione di Matt alle notizie riguardanti la pandemia fu cinicamente distaccata e quasi divertita. Per lui, il virus non era altro che l’ennesimo argomento da cavalcare per accrescere la popolarità di Duck. Il contagio non rappresentava per lui la benché minima preoccupazione: da anni aveva acquistato un’isola sperduta nell’Oceano Pacifico, dove si trasferì non appena comprese che l’imposizione della quarantena sarebbe valsa persino per lui.
Circondato dalle sterminate e cristalline acque oceaniche, da palme, ville e piscine costruite appositamente per sé e per la servitù – ci teneva a riferirsi alle persone alle sue dipendenze con questa specifica denominazione –, gestiva comodamente la sua azienda nella più totale isolazione. D’altronde, era sempre stato una persona solitaria, e negli ultimi anni sentiva di aver fatto indigestione di vita sociale, a causa della sua fama magnetica. Aveva persino ripopolato l’isola con una particolare specie di roditore in via d’estinzione, che ora, privo di cacciatore naturale, proliferava a vista d’occhio, e divertiva con i suoi goffi e buffi movimenti, il giovane miliardario. Crogiolandosi nel suo delirio di onnipotenza, Matt non poteva che sentirsi completamente al sicuro dal virus che nel frattempo mieteva centinaia di migliaia di persone.
Quando, una mattina, mentre osservava divertito alcune assurde discussioni complottiste sul suo feed, si rese conto di avere un leggero fastidio alla gola, non avrebbe mai potuto immaginare che si trattasse proprio del virus Circeus. Uno degli chef dell’isola era infatti stato contagiato mentre comprava i costosi approvvigionamenti necessari per il menù della settimana, durante uno dei suoi viaggi nella città dell’arcipelago limitrofo. In pochi giorni i trenta abitanti dell’isola – tutti naturalmente alle dipendenze della stessa persona – furono contagiati, trasformandosi uno dietro l’altro in animali delle più svariate specie. Mentre l’isola si popolava di maiali, cervi, coccodrilli, pappagalli e rettili di qualunque tipo, Matt, tronfio nella sua convinzione di essere invincibile, continuava a negare la possibilità di aver contratto il virus.
Ben presto, tuttavia, si rese conto che qualcosa non andava: il collo gli sembrava teso, come se il tessuto sotto la pelle si stesse allungando, e sentiva un fastidioso formicolio in tutto il corpo. Quando si spogliò, notò un sottile strato di piume bianche emergere dai pori della pelle, mentre le dita dei piedi sembravano contrarsi e assumere un colorito tendente all’arancione. Nei giorni seguenti, la trasformazione avvenne inesorabilmente: al posto delle braccia spuntarono due goffe e pesanti ali, il muso si allungò in un becco arancione, le dita dei piedi si fusero fino a diventare zampe palmate, il collo si allungò a dismisura e le piume si espansero in tutto il corpo, in uno strato soffice e uniforme. Tentò più volte di chiamare qualcuno in suo aiuto, ma dalla gola fuoriuscivano soltanto dei fastidiosi e gutturali starnazzi. Matt era diventato un’oca, prigioniero in un corpo alieno che non gli apparteneva e in un mondo ostile, costruito da lui stesso.
Ciò che tuttavia lo inquietava maggiormente, era il dolore interno, sordo ma costante: sentiva il fegato crescere, pulsare, ingrossarsi sempre di più, ad ogni respiro che emetteva con fatica. Due parole francesi gli risuonavano nella testa: foie gras, foie gras, foie gras.
Agitando le ali e starnazzando in maniera fragorosa, giunse goffamente di fronte allo specchio della sua mastodontica camera da letto con vista sull’oceano. Osservò il suo riflesso, con quel collo troppo lungo e quelle zampe sproporzionate, piegò la testa di lato e sentì una strana sensazione: non paura, non pentimento per tutto il male che aveva causato al mondo; non colse neppure il paradosso del destino, che lo aveva trasformato proprio in quell’animale di cui si era cibato con gusto da bambino e il cui pensiero aveva influenzato spesso le sue scelte di vita. Avvertì solo una sensazione di calma agghiacciante: era solo una nuova fase, un’ulteriore trasformazione. Forse, pensò, era sempre stato un’oca, fin dall’inizio.
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