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Tauromachia, Capitolo I

michisabatini

Aggiornamento: 19 feb

copertina: Alen
copertina: Alen

La città di Valencia splendeva sotto il tanto atteso sole caldo e ristoratore di marzo. La Plaza de los Toros, cuore pulsante della città, era insolitamente gremita di persone, complice l’intervento da parte del governo nell’abbassare i prezzi del biglietto per la corrida.

«Hai visto? Hai visto che il berretto è atterrato dritto?» gridò Miguel a Ines, la ragazza che sedeva al suo fianco, sugli spalti.

«E quindi?» domandò lei, svogliata.

«È segno di buon auspicio: significa che la corrida andrà a buon fine».

«Non credo che il toro la pensi allo stesso modo».

Miguel Garcia era il fratello del matador di quella giornata, Rafael Garcia, nonché figlio del celebre matador Javier Garcia, deceduto quando Miguel aveva otto anni. Era cresciuto nelle arene dei toreri, inalando la polvere dell’arena e scrutando il sangue vermiglio dei bovini sgorgare sul terreno.

Quando il toro fuoriuscì prepotentemente dalla porta del toril, Miguel si alzò in piedi e batté fragorosamente le mani: niente al mondo lo esaltava quanto assistere allo spettacolo della corrida. Ines gli scoccò un’occhiata infastidita, masticando una gomma. La vistosa cicatrice sulla guancia destra del ragazzo pareva brillare alla luce del sole. Essa era il risultato di un allenamento durante l’infanzia, in compagnia del padre e del fratello, conclusosi con un ruzzolo a causa di un toro impazzito. Nonostante il dolore, Miguel ricordava quel giorno con grande soddisfazione: suo padre si era preoccupato per lui, gli aveva offerto una bibita fresca e, con un’incoraggiante pacca sulla spalla, si era congratulato con lui per l’eroismo con cui aveva tentato di fermare il toro.

Il ventiduenne si apprestò a spiegare in maniera dettagliata le fasi della corrida man mano che si mostravano ai loro occhi.

«Vedi, è tutto un balletto di coraggio e abilità. Prima c'è la fase di lancio della capa, dove il torero usa il mantello per attirare l'attenzione del toro e prepararlo per la faena».

«Onestamente non capisco come possa essere considerato un "balletto". È crudele e spietato. Questi animali non meritano un trattamento del genere».

Miguel parve non sentire una parola della risposta.

«Poi c'è la fase delle banderillas, dove il picador infilza il toro con le lance colorate, ma deve centrarlo con precisione… eccolo, bravissimo!».

Ines ignorò per una manciata di secondi la pedante spiegazione di Miguel, distratta dal singolare discorso di una coppia di amici seduti nella fila davanti alla loro.

«Presto questo posto sarà chiuso e ci manderanno tutti a casa: hai sentito di quel virus dalla Cina?» domandò il primo.

«Tutte cazzate, fidati di me. Guardati attorno, ti sembra che qualcuno stia male?» rispose l’altro.

«Ho sentito che i delfini dell’Oceanografico erano persone prima. Hanno eliminato i delfini veri e li hanno sostituiti con le vittime del virus: è più facile insegnare a saltare e danzare a delle persone in corpi di pesci, no?».

L’altro rise rumorosamente, interrompendo per un attimo lo sproloquio di Miguel, che riprese subito dopo.

«Ma senti quante stronzate, Jorge. A parte il fatto che i delfini sono mammiferi e non pesci, dovresti guardare meno i telegiornali e goderti di più la vita».

Levò in alto il grosso bicchiere di birra che aveva in mano e diede un amichevole spallata al compagno. Ines pensò che entrambi fossero solo due vecchi ubriachi, e decise di riprendere la conversazione con Miguel, interrompendolo con un cenno della mano.

«Quindi, giusto per capire, non solo un tipo ridicolo, vestito in calzamaglia, uccide il toro ad armi impari…».

«Il matador» la interruppe Miguel.

«Lui. Non solo questo matador lo uccide in modo barbaro, ma in più questi altri lo indeboliscono con delle lance. Ti rendi conto che è disumano e scorretto, vero?».

Miguel pensò che non fosse il caso di dirle che il toro prima dell’incontro veniva drogato e colpito ripetutamente sui reni, in modo tale da venire innervosito, oltre che avere la vista annebbiata dalla vaselina e il respiro ostruito dalla stoppia nelle narici. Nonostante fosse ben consapevole del trattamento ignobile riservato al bovino, c’era qualcosa nell’antica arte della tauromachia che lo eccitava quanto l’ebbrezza di fare l’amore.

«Tu non puoi capire: è una danza tra la vita e la morte, tra l’uomo e la bestia, tra l’uomo e sé stesso. Solo chi sta sull’arena può capirlo».

«Non voglio capire, Miguel. Se non fosse per la festa di più tardi me ne sarei già andata».

«Ecco Rafael!» esclamò Miguel, alzandosi in piedi e battendo le mani, eccitato.

Con due dita sulle estremità della bocca, emise un forte fischio che infastidì Ines ulteriormente. Osservava, avido di sangue, il giovane matador sull’arena. Rafael, nell'arena, indossava il tradizionale traje de luces dorato, che catturava ogni raggio di sole, facendolo scintillare come un idolo antico. La giacca era corta, aderente e ornata di ricami dorati elaborati, che creavano motivi floreali e arabeschi. Le spalle erano decorate con rigonfiamenti rigidi chiamati hombros, arricchiti da nappe che pendevano come piccole cascate dorate. Il panciotto aderente, sotto la giacca, dello stesso tessuto, evidenziava la figura atletica del fratello ventottenne, mentre la camicia bianca sotto di esso era impeccabilmente stirata, con un colletto alto e una cravatta di seta nera legata con un nodo preciso. I pantaloni, altrettanto stretti, erano realizzati in seta nera, ornati con motivi dorati lungo i lati, e terminavano appena sopra il ginocchio, lasciando intravedere le calze di seta rosa. Le scarpe, nere e lucide, erano leggere ma resistenti, con suole sottili per consentire precisione e rapidità nei passi. Il tocco finale era il montera, il tradizionale cappello del torero, realizzato in velluto nero e decorato con un motivo ricamato in oro.

«Devo ammettere che tuo fratello ha il suo fascino, vestito così» commentò la ragazza.

Miguel finse di ignorarla e, saltando sul posto, incitò il fratello a finire una volta per tutte il toro. Il bovino, grosso due volte Rafael, respirava affannosamente, mentre stretti rivoli di sangue sgorgavano dalle due picadores conficcate nei muscoli delle spalle. Rafael tirò fuori il drappo rosso, a pochi metri dall’animale. Quello scalciò e abbassò il muso, puntando con le corna verso di lui. Con un balzo, il gigantesco toro caricò l’uomo, che con un’agile giravolta lo schivò, gettandosi di lato. Rafael ripeté la scena più volte, facendo innervosire sempre di più l’animale, e dando prova al pubblico delle sue leggiadre movenze.

Ines, nel frattempo, si era coperta il volto con le mani, e sbirciava con l’occhio sinistro dallo spiraglio formatosi tra le dita. Miguel si era aggrappato con veemenza al sedile davanti al suo. Si era totalmente dimenticato della ragazza al suo fianco: per lui esisteva solo la scena che gli si parava davanti, il sottile sentiero del fratello tra la vita e la morte.

«Matalo, hermano!» gridò.

Rafael balzò verso il toro, sfoderando la spada, chiamata estoque. L’intera arena sospirò all’unisono. Persino Miguel tacque, con il fiato sospeso. La spada si infilò esattamente al centro della fronte del toro, come la tortilla nella salsa guacamole, come se fosse quello il luogo a cui l’arma era sempre stata destinata.

Quando Rafael sfilò con un solo gesto la spada dal cranio del toro, quest’ultimo cadde di lato, e il matador lo schivò per un soffio. L’intera arena osservò, insieme a Rafael, il povero animale agonizzare, mentre fiotti di sangue sprizzavano dal buco sulla fronte. Si dimenò con tutto il corpo per poco più di un minuto, agitandosi nella poltiglia creata dal miscuglio tra il suo stesso sangue e la terra dell’arena, finché non smise di muoversi.

Rafael sorrise, soddisfatto, e si voltò verso il pubblico, allargando ambedue le braccia al cielo. Quando tutta l’arena scoppiò in un fragoroso applauso, si inchinò più volte di fronte a essa. Miguel fu il primo a tirar fuori dalla tasca il fazzoletto bianco, seguito da gran parte del pubblico, in segno di trionfo.

Il fratello maggiore sentì il cuore battergli impazientemente nel petto, sommerso dall’adrenalina e fiero della perfetta riuscita della performance. Incrociò l’altrettanto orgoglioso sguardo del fratello sugli spalti, ma distolse lo sguardo immediatamente. Si tastò il petto e indicò il cielo con un dito, riferendosi a una persona nello specifico.

«Papa sarebbe fiero di te» sussurrò Miguel, fingendo di ignorare la schivezza con cui il fratello aveva reagito al suo sguardo, come ad ogni incontro. Ormai si era abituato a tale dinamica, ma ogni volta sperava che ricambiasse il suo orgoglio, il suo sorriso.

Rafael tentò di celare la propria emozione, si levò il montera e lo lanciò verso il pubblico, in segno di gratitudine.

«E ora cosa fanno?» domandò Ines inorridita, lo sguardo fisso sul corpo esangue dell’animale, sul quale i due picadores si chinarono con un coltellaccio in mano.

«Tagliano le orecchie del toro per donarlo al matador! È un segno di grande riconoscimento da parte del presidente».

Dopo quella che agli occhi di Ines parve una scena raccapricciante, i picadores donarono teatralmente le orecchie del toro a Rafael, il quale ringraziò e le mostrò al pubblico. Un carro trainato da due cavalli portò via il corpo del toro, lentamente e solennemente.

«Vedi, se lo spettacolo non fosse stato avvincente, il carro sarebbe uscito velocemente dall’arena, per mostrare sdegno di fronte a Rafael. Invece vedi come va lento, che onore!» spiegò Miguel.

«Gli basterà il mio di sdegno!».

Quella sera, come da tradizione, festeggiarono in un tapas bar di fronte alla spiaggia di Malvarrosa. Le tavole erano imbandite di tapas di ogni tipo: prosciutti, patatas bravas, tortillas, ma soprattutto litri di sangria e tinto de verano purpurei, e pinte di birra dorate scorrevano a fiotti nei bicchieri degli invitati. Naturalmente, il protagonista della festa era Rafael, il quale aveva affittato il locale e offerto da bere e da mangiare a tutti per celebrare il proprio trionfo.

La musica riempiva la sala con le note di salsa e bachata, fin troppo irresistibile per impedire alle coppie presenti di iniziare a ballare al centro della stanza. Miguel sedeva al bancone, accanto a una Ines leggermente ebbra, che continuava a fissare il ragazzo negli occhi nell’attesa che le chiedesse di ballare, mentre con il dito accarezzava il bordo del bicchiere di cristallo colmo di sangria. Come al solito, lui non riusciva a smettere di parlare della corrida.

Ines non sapeva nemmeno per quale motivo avesse accettato l’invito di Miguel ad assistere a un evento del genere, che lei aveva sempre considerato barbaro e inguardabile. Vi era qualcosa, tuttavia, in quel ragazzo dalla cicatrice sul viso, che la intrigava e incuriosiva. D’altronde, le erano sempre piaciuti, fin dalle prime frequentazioni adolescenziali, i ragazzi particolari, spesso ossessionati dallo sport e pieni di sé, dal colorito mediterraneo, i capelli scuri e arruffati, e dallo spirito indomabile e indecifrabile. Si era spesso trovata a uscire con uomini che sembravano disinteressati a lei, e aveva sempre ignorato quelli innamorati. In un certo senso si poteva dire che Ines amava le sfide, e con Miguel aveva trovato un bel rompicapo da sbrogliare. Non per niente, si trovava all’ultimo anno di studi per diventare un’infermiera. Aveva incontrato Miguel in quello stesso bar, e il primo elemento che aveva notato era stata proprio la cicatrice sul volto, seguito dallo sguardo misterioso, incuriosito dal mondo, ma che sembrava celare una profonda malinconia.

All’ennesimo discorso sui movimenti fluidi ed eleganti della performance del fratello di quel giorno, fece per alzarsi e abbandonarlo, quando venne in suo soccorso Rafael.

«Vi state divertendo?» domandò, con la sua voce profonda. La bocca sorrideva, ma la luce dei suoi occhi verdi pareva celare una tristezza ancora più misteriosa e profonda di quella del fratello minore.

«Sì, Rafael, grazie per la birra» rispose Miguel. Il tono di voce parve più mansueto del solito, alle orecchie di Ines.

«Le birre» lo corresse Rafael, gettando un’occhiata alle tre pinte vuote di fronte al fratello e sorridendo alla ragazza.

«Già, scendono come acqua. Ti ringrazierei anche per il cibo, ma non capisco perché sia tutto così sciapo».

Rafael ignorò la critica sterile e volse lo sguardo verso la ragazza.

«A te come va, corazón?».

«Tutto bene, grazie. Il cibo è buonissimo, non so di cosa stia parlando Miguel» rispose con voce imbarazzata Ines, che non si aspettava tanta cordialità da quella che sembrava essere la celebrità dell’evento.

«Lascialo stare. Ti sta riempiendo di discorsi inutili sulla corrida, vero? Hermanito, falla divertire un po’, è una fiesta!».

Miguel gettò una rapida occhiata sulla ragazza, e comprese dall’espressione sul suo volto che si stava annoiando. Provato da un leggero senso di colpa, fece per invitarla finalmente a ballare, quando Rafael gli cinse le spalle con il braccio e lo tirò a sé.

«Posso rubartelo per un attimo, corazón?» domandò a Ines, sorridendo spavaldamente.

Si voltò prima ancora che lei potesse rispondere, e si incamminò verso l’uscita del locale insieme al fratello.

«Sembra simpatica, questa Ines».

Miguel annuì.

«Già, ma non mi sembra tanto presa».

«Certo, le parli solo della corrida. Le donne devi corteggiarle, ballare con loro, ma soprattutto devi saperle ascoltare. Hai ancora molto da imparare, hermanito».

Una volta usciti dal bar, Rafael gli diede un buffo affettuoso sulla nuca, e per un attimo rimasero in silenzio, ad ascoltare lo scroscio delle onde in lontananza che sovrastava la musica nel locale. Una rinfrescante brezza primaverile soffiava sui loro volti, e una argentea luna si specchiava sul mare sereno.

«A proposito, domani hai tempo per allenarti con me nell’arena?»

«Non so Miguel, sai che il pomeriggio ho un altro incontro, ed è il più importante della stagione».

«Dicono che sia lo stesso toro che ha… insomma, è vero?».

«Sì, è la stessa razza. Pare che sia anche più grande di quello di papa».

«Hai paura?»

«Il toro non è mai il vero nemico. È tutto il resto: la folla, la pressione… quegli attimi in cui sai di non poterti permettere di sbagliare».

«Lo diceva anche papa, prima che quel toro…»

«Ne abbiamo già parlato, Miguel. Io non do la colpa al toro».

Miguel si raggelò, come ogni volta che ripensava a quella scena. Un applauso, un fischio, un grido. L’ultimo sguardo bonario di Javier Garcia, rivolto al più giovane dei suoi figli. Un attimo di distrazione, poi un tonfo sordo, le grida terrorizzate della folla, il sangue che scorreva sull’arena.

«Oggi lo hai fatto di nuovo, sai? Quante volte ti ho detto che non devi farlo?».

«Già, ti chiedo scusa. È che non me ne accorgo nemmeno».

Rafael scrutò attentamente il fratello, con il suo sguardo malinconico e curioso. Socchiuse gli occhi e sorseggiò la sangria dal calice che aveva portato con sé, in silenzio. Miguel sollevò gli occhi da terra, evitando le occhiate del fratello, e allungò lo sguardo verso il mare.

«Senti, io rientro. Conviene anche a te, prima che qualcuno ti porti via Ines».

«Rientro tra un attimo» rispose Miguel, distratto.

Rafael posò lo sguardo sul fratello un’ultima volta. Senza essere notato, avvicinò la mano alla sua spalla, nel goffo tentativo di rassicurare qualsiasi marea che tumultuava dentro il suo animo, salvo ritrarre la mano all’ultimo istante, per rientrare nel locale con un sorriso fintamente divertito.

Miguel inspirò lentamente, nel tentativo di annusare nell’aria il profumo salmastro del mare, come soleva fare durante le estati d’infanzia, ma non sentì alcun odore: il mondo pareva impassibile di fronte alla sua malinconia. Si voltò verso il locale, e intravide con la coda dell’occhio una Ines divertita, danzare sorridente tra la folla.

Diede un colpo di tosse, e decise che non aveva alcuna voglia di ballare. Si incamminò verso la spiaggia, a pochi metri, e si sedette vicino alla riva, di fronte alle onde che placide battevano sulla battigia.

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