SEARCH RESULTS
6 elementi trovati per ""
- La falena e la luce
copertina: Alen Armando si era trasformato in una falena in una afosa e asfissiante notte del luglio 2020. Inizialmente il trentanovenne romano aveva provato una sorta di sollievo, poiché l’ininterrotto agitarsi delle ali aveva rinfrescato la sua nuova, flebile e minuscola schiena. Quando si era reso conto di potersi librare in aria, nonostante la goffaggine nei movimenti, aveva realizzato che quello era il cambiamento che segretamente aveva atteso per tutta la vita. Assistente informatico in una scuola media della periferia di Roma da ormai sedici anni, aveva abitato fin dai tempi dell’università nello stesso monolocale in affitto, vicino al capolinea della metropolitana A. La vita da lui condotta era prettamente – utilizzando un eufemismo – sedentaria e abitudinaria: ogni mattina prendeva la metropolitana alle 7:15, dopo quattro fermate camminava una decina di minuti prima di arrivare a scuola, si sedeva nel minuscolo e buio ufficio che condivideva con l’altro tecnico della scuola, Giovanni, da lui detestato, alle 14 pranzava in fretta e furia con i wurstel comprati al discount e preparati la sera prima, e alle 15:30 faceva ritorno a casa. Si sdraiava sul divano, accendeva la televisione e sceglieva un qualsiasi talk show pregno di inutili discussioni su un qualsiasi tema della giornata, come sottofondo per il suo incontrollato e interminabile scrollare sui social network dal cellulare, senza muovere un muscolo fino all’imbrunire. Quando si rendeva conto che era sopraggiunto il buio, le decisioni da prendere riguardo alla cena erano due: aprire un pacco di patatine formato famiglia e ingurgitarle tutte fino a ricoprirsi il mento e il collo di briciole, oppure ordinare a domicilio un hamburger o qualche altro cibo spazzatura sulle app di delivery. Si addormentava alle 21 e si risvegliava categoricamente intorno a l’una. Si alzava dal divano con fatica, tra bestemmie e imprecazioni cucinava frettolosamente i wurstel di scarsa qualità per il pranzo dell’indomani, e tentava invano di riaddormentarsi. Quando era fortunato, riusciva a chiudere nuovamente gli occhi alle 3, per risvegliarsi meno di tre ore dopo, e dover ricominciare la sua monotona ed estenuante routine. Durante i suoi quasi otto lustri, Armando non aveva mai coltivato un hobby, una qualche passione specifica, uno sport. Negli ultimi dieci anni non aveva visto un film, letto un libro, preso un aereo o perlomeno un bus per una gita domenicale fuori porta. Non vedeva il centro di Roma da anni ormai, e l’unica uscita settimanale che si concedeva era la visita domenicale all’ospizio dove aveva fatto trasferire la sua anziana madre. Come è facilmente intuibile dalla lista delle sue abitudini, Armando superava di gran lunga la soglia dell’obesità. Il vezzo che probabilmente aveva perseguito con maggiore costanza nel corso della sua vita era quello del fumo: consumava almeno un pacchetto di Marlboro rosse al giorno, durante i suoi pigri pomeriggi, durante i quali, sdraiato sul divano con le tapparelle abbassate e il conseguente esiguo ricircolo d’aria, si lasciava inondare dalle maree di odio provenienti dai social e dalla televisione. Aveva osservato i suoi quasi quarant’anni di vita trascorrere passivamente, come se si fosse sempre trovato su quel vecchio divano, senza mai sforzarsi di cambiare canale, una sigaretta dopo l’altra. Dentro si sé era ben consapevole della necessità di un cambiamento positivo nella sua vita, ma la pigrizia e l’arrendevolezza lo avevano sempre immobilizzato in quella ripetitiva situazione. Non vi è dunque da stupirsi se la prima sensazione provata in seguito alla sua metamorfosi fosse quella di sollievo. Finalmente sembravano scomparsi i dolori alla schiena, l’affannoso respiro, la fastidiosa e costante tosse, l’odio che provava verso il suo ingombrante corpo. Come se non bastasse, ora era persino in grado di volare e si orientava alla perfezione nel buio della stanza. L’approccio che Armando aveva sempre avuto nei confronti della vita, come si può immaginare, non era mai stato dei più positivi. Aveva sempre trovato qualcosa di cui lamentarsi, qualcuno da criticare o su cui scaricare le colpe per il proprio malessere. Per questo motivo, il senso di gioia che lo aveva colpito in quella notte di luglio non durò a lungo: ben presto lasciò spazio al risentimento e ai mugugni. Cosa avrebbe fatto ora che non era più umano? Non avrebbe più potuto lavorare, né mangiare le ingenti quantità di cibo alle quali era abituato, o impugnare un telefono o una sigaretta, o guardare la televisione. Pensò che non avrebbe neppure potuto fare una semplice passeggiata al parco. Certo, non aveva poggiato piede in un parco negli ultimi vent’anni, né tantomeno ne aveva mai avuto alcuna intenzione, ma ora anche la più remota possibilità di farlo gli era stata negata. Preso dallo sconforto e oppresso dal turbinio di pensieri negativi che gli ottenebravano la mente, volteggiò verso il soffitto e, ignorando per qualche attimo quell’inspiegabile e improvvisa attrazione nei confronti della flebile luce del lampadario, fuoriuscì dalla finestra, abbandonando per sempre il suo umido e puzzolente appartamento. Durante l’estate, Armando aveva vagato con il suo inconsueto e leggero corpo sopra la capitale, riposando di giorno e vivendo di notte, privo di una meta precisa, come era sempre stato abituato. Con il tempo aveva imparato ad apprezzare, o perlomeno sopportare la propria condizione, nonostante gli capitasse spesso di ripensare con nostalgia alle abitudini del passato: la totale nullafacenza, la solitudine, lo scrolling, ma soprattutto gli mancava fumare. Il sapore affumicato del tabacco gli mancava a tal punto che una volta aveva persino tentato di inalare il fumo proveniente da un comignolo, con il conseguente rischio di soffocare. Nelle ultime settimane si era unito a uno sciame di altre falene, con le quali aveva imparato velocemente a comunicare. Naturalmente, non ne sopportava nemmeno una. Fin dai tempi ormai reconditi in cui era stato umano, Armando non aveva mai avuto la pazienza o il desiderio di conoscere nuove persone e farci amicizia. Aveva sempre prediletto la compagnia di sé stesso, e dato che spesso detestava persino ascoltare i propri pensieri, aveva trovato innumerevoli modi per distrarsi nel corso degli anni, attraverso i fragori ininterrotti della televisione o dello smartphone. Tuttavia, data la situazione in cui si trovava, soprattutto con l’avvicinarsi dell’autunno, era ben consapevole di non poter sopravvivere a lungo in solitudine, e si trovò perciò costretto ad affidarsi ai suoi simili. Quello sciame in particolare era guidato da una falena più anziana e saggia, soprannominata Prudenza, per via della cautela con la quale si muoveva per evitare rapaci o eventuali esseri umani violenti. Nonostante non sopportasse di dover dipendere dalle decisioni di un leader, Armando si fidava di Prudenza, poiché più volte aveva portato in salvo lui e le altre falene dalle grinfie di ragni tessitori, bambini curiosi che allungavano le mani per afferrarle e predatori piumati. Ciò che meno sopportava delle altre falene era la loro ossessione nei confronti delle luci. A volte era capitato anche a lui, anche se in forma lieve, di provare attrazione verso le fonti di calore e di luminosità, come se lo sfrigolio luccicante delle lampadine fosse una meravigliosa melodia, il canto delle sirene che attirava i marinai. Tuttavia non aveva mai ceduto alla tentazione di avvicinarvisi, poiché consapevole del pericolo in cui poteva incombere. Aveva visto fin troppe falene fare quella fine per essere tanto sciocco da lasciarsi tentare. Una sera di inizio settembre, la compagnia di falene giunse in un luogo insolito: all’interno di una delle fitte aree verdi di Roma, si svolgeva una piccola festicciola per celebrare la fine dell’estate. Un gruppo ridotto di giovani si era riunito sotto la luce delle stelle e aveva allestito un gazebo con una tavola imbandita di birre e stuzzichini, circondato da numerose lampadine. La musica proveniente dalle casse portatili sovrastava a malapena il vociare spensierato dei giovani. Il gruppo di falene ignorò completamente la presenza di esseri umani. Tutta la compagnia, ad eccezione di Prudenza e Armando, sembrava attratta in maniera compulsiva da quelle luci brillanti. Ben presto, una dopo l’altra, volarono verso le lampadine, ignorando i tentativi di rimprovero da parte del loro leader. Erano incantate a tal punto da quei bagliori da non rendersi conto che loro stesse e le loro compagne bruciavano all’istante, non appena vi si posavano sopra. Fu una vera e propria carneficina: in pochi minuti rimasero soltanto Armando e Prudenza, in fondo al gruppo. Armando, innervosito da quello stupido e inspiegabile comportamento che le aveva portate a una morte rapida e violenta, svolazzò accanto alla saggia falena, e pose il quesito che lo tormentava fin dal primo giorno in cui era avvenuta la sua metamorfosi. «Ma perché le falene sono così ossessionate dalle luci?». «Perché sono meravigliose, le hai osservate bene?». «Già, ma sono anche mortali. Insomma, non si sono mai accorte che le falene che si avvicinano alla luce non tornano più?». «Alcune sono troppo giovani per averlo mai visto o poterlo comprendere. Altre sì, sanno bene a che fine andranno incontro». «E nonostante tutto si avvicinano alla luce? Chi sarebbe così stupido da amare qualcosa che lo uccide?». «Tu non lo faresti? Non moriresti nel nome di qualcosa di tanto bello, tanto amabile?». «Beh, no grazie, preferisco vivere». «Umani!» commentò sbuffando Prudenza. «Ma come… come sai che sono un umano?». «É così evidente! Dal modo in cui ti muovi, da come ti esprimi, ma soprattutto da come ragioni». Armando restò in silenzio, sconvolto dalla facilità con cui era stato smascherato. «Sai, ne ho osservato tanti di umani durante i miei tre lunghi anni di vita. Gli uomini amano la bellezza, la bramano e la rincorrono lungo il corso della loro intera esistenza. E alla fine si lasciano uccidere da ciò che più amano, senza avere il tempo di rendersene conto: coloro che amano la solitudine moriranno soli, coloro che adorano bere, fumare, lasciarsi sovrastare e comandare dai vizi si lasceranno morire per colpa di essi. Alcuni non amano niente, invece. Sono quelli che si accontentano di una vita monotona, schiavi dell’abitudine, privi di passioni o interessi, finché la ripetitività non li ammazza una volta per tutte». Armando continuò a tacere. Ripensò alla sua vita da umano: il fumo, il cibo spazzatura, la tv spazzatura, lo scrolling sui social, la solitudine, l’odio verso di sé e verso il mondo, l’indolenza; quale di questi vizi a cui tanto amava dedicarsi lo avrebbe ucciso per primo? Egli era la somma di tutti gli uomini descritti da Prudenza, e al contempo nessuno di essi. Era mai stato un uomo? O forse la vita gli era trascorsa davanti agli occhi, tanto celermente da non permettergli di essere considerato tale? «Vedi com’è bella la luce? Non varrebbe la pena rischiare la vita per tanta bellezza?». Prudenza lo abbandonò senza attendere una risposta. Agitò le ali e si avvicinò con una calma solenne, quasi cerimoniale, alla luce della lampadina. Quando si posò su di essa, la luce tremolò per un istante, mentre il corpo della vecchia falena si dissolse in uno sfrigolio impercettibile, come un ultimo sospiro svanito nell’aria tiepida della sera. Sospeso nell’aria, Armando provò per l’ennesima volta, sull’interezza del suo corpicino, quella stravagante sensazione di attrazione nei confronti della luce. Sembrava emanare un calore familiare, accogliente, come quando la mamma lo attendeva sulla soglia di casa a braccia aperte, dopo una noiosa mattinata trascorsa tra i banchi di scuola, come il caloroso conforto di un camino nelle notti d’inverno. Senza che se ne rendesse conto, le ali lo sospinsero in avanti e, man mano che proseguiva un brivido di piacere lo pervase dalle zampe alle antenne. La luce gli parve meravigliosa, non aveva mai amato niente fino a questo punto in tutta la sua vita. Quando il suo corpo toccò la lampadina, un lampo di luce più intenso illuminò il gazebo, per poi svanire in un istante, avvolgendolo completamente. Per un attimo, in quell’ultimo, fugace bagliore, Armando ebbe la sensazione di aver vissuto davvero.
- "Se fossi un vermino?"
copertina: Alen Dall’alba dei tempi, tutti gli uomini nella fascia analogica tra gli otto e i sessant’anni che hanno avuto la fortuna di trovare un partner che amano e rispettano, ad un certo punto della propria relazione sentiranno la fatidica domanda: “Mi ameresti lo stesso se fossi un vermino?”. Recenti studi dimostrano che questo sia il quesito più frequente in assoluto, seguito da “Mi vuoi sposare?” e “Mi vedi ingrassata?”, le cui rispettive risposte devono essere rigorosamente e perfettamente opposte. Dopo circa otto mesi di relazione con Lidia, studentessa ventiduenne bionda di psicologia alla facoltà di Padova, il medesimo quesito venne posto a Gigi. Lui era più grande di lei di due anni, e studiava ingegneria gestionale nella medesima città. Mentre Lidia aveva desiderato di diventare una psicologa dacché ne avesse memoria, Gigi non aveva mai mostrato particolari passioni o interessi riguardo al futuro. Trovatosi di fronte alla scelta universitaria, alla fine del liceo scientifico, aveva optato per la stessa che il padre e lo zio avevano scelto prima di lui, senza pensarci troppo sopra. Lui e Lidia si erano conosciuti in biblioteca, dopo settimane di sguardi languidi dietro le pagine dei libri e pause alla macchinetta del caffè programmate reciprocamente per essere contemporanee l’una all’altra. La prima a prendere parola era stata lei, da sempre la più determinata dei due, ma il primo a sporgersi per baciarla durante il loro terzo appuntamento, nella maestosa piazza centrale di Padova, era stato lui. Un mese esatto dopo quel lieto pomeriggio invernale era scoppiata la pandemia. Entrambi erano stati costretti a tornare nelle rispettive case dei loro genitori, nei paesini della campagna veneta poco distanti da Padova, rinunciando alla stanzetta da fuori sede per il cui ottenimento avevano tanto faticato, all’inizio del loro percorso accademico. Dopo l’estate, quando la situazione pandemica sembrava essere migliorata, entrambi fecero ritorno in città, ma i costi delle stanze erano raddoppiati. La mattina della fatidica domanda, i due si trovavano a letto, avvinghiati l’uno all’altra, nella nuova stanza di Gigi. Lui aveva appena aperto gli occhi, e sentiva il caldo e rassicurante respiro della ragazza sul suo collo. Nonostante quella sensazione, in qualunque altra circostanza, avrebbe causato un bel sorriso sul suo volto, quella mattina si rese conto che non si era mai preparato a tale nefasto quesito. “Ovvio che no” sarebbe stata la risposta più razionale, figlia della mentalità che aveva acquisito durante i cinque anni di studi ingegneristici: come si può amare un verme allo stesso modo con cui si ama una persona? Aveva pochi secondi per parlare: la risposta doveva essere immediata, ma non a tal punto da apparire falsa. Quei due o tre secondi di finta meditazione dovevano necessariamente precedere la risposta perfetta, per renderla credibile e ponderata, ma al contempo ferma e decisa. «Certo, amore» rispose infine. Lidia sorrise fieramente, e lo baciò delicatamente sul collo. Nella stanza si percepiva l’atmosfera intima dell’amore autentico, libero da qualsiasi giudizio superficiale. Gigi tirò un sospiro di sollievo, fermamente convinto di aver scampato il pericolo, e ignaro del fatto che si sarebbe trovato di fronte alla gestione della situazione poche settimane dopo. Nei giorni successivi, mentre lei accusava colpi di tosse e perdita del senso dell’olfatto, lui rifletté a lungo sulla risposta data. Ripensandoci, l’avrebbe davvero amata indipendentemente dalla sua forma: lei lo aveva spesso salvato dalla malinconia esistenziale e dall’ansia per gli esami e per il futuro, lo aveva sempre ascoltato e fatto sentire a casa. Con lei era Gigi a sentirsi un vermino, coccolato e protetto dalla bontà di Lidia. Accadde una mattina simile a quella in cui lei gli aveva posto la domanda. Ancora assonnato, colpito dalla luce che filtrava dalle tapparelle, Gigi si rese conto che Lidia non dormiva più al suo fianco. O meglio, non era più la Lidia che conosceva. Scostando le candide lenzuola, intravide un minuscolo vermino, lungo quanto il suo mignolo e color pesco, dimenarsi tra le coltri. Non vi era bisogno che nessuno dei due dicesse alcunché. Lì per lì, Gigi non pensò neppure all’ironia dell’accaduto: si chinò sul letto con le mani chiuse a coppa, e raccolse con prudenza la Lidia vermino. Con l’indice l’accarezzò delicatamente sul minuscolo capo, e le sussurrò tre semplici parole: «Ci sono io». Nelle settimane successive, Gigi dedicò le sue giornate alla ricerca approfondita di come accudire un vermino. Comperò una piccola teca di vetro e la riempì di sassolini raccolti nel parco e muschio preso in un vivaio. Si occupò di non farle mai mancare acqua e foglie secche per il suo nutrimento, oltre a confidarsi con lei, mangiare in sua compagnia, portarla con sé durante le passeggiate in centro o in biblioteca per studiare. Lidia, dal suo canto, non si lasciò scoraggiare dall’evento: il virus l’aveva trasformata in un vermino, ma non le aveva impedito di amare ed essere amata. Annuiva con il suo esile e sinuoso corpicino durante le conversazioni con Gigi, e non le mancava più di tanto parlare: era sempre stata una ragazza taciturna, una di quelle che preferisce ascoltare ciò che le persone hanno da dire. Non per niente, voleva diventare una psicologa, sebbene gli studi fossero stati momentaneamente messi in pausa per ovvi motivi. A volte le piaceva restare distesa dentro la sua teca a osservare il soffitto, con della bella musica in sottofondo, mentre il mondo continuava a girarle attorno, senza che lei muovesse un muscolo. Altre volte, comprensibilmente, si rattristava al pensiero che non avrebbe più potuto correre, o mangiare una pizza con gli amici, o fare l’amore con il suo fidanzato. Quando finalmente venne messo in circolo il vaccino, Gigi comprese immediatamente il desiderio di Lidia di sottoporsi alla prima dose. Nonostante le numerose voci di corridoio, sui social media e nei dibattiti televisivi, che dubitavano della sua efficienza, Lidia non aveva niente da perdere. Inoltre, in quanto contagiata, faceva parte della categoria più a rischio, e dunque in prima fila per la campagna vaccinale. Ancora una volta, fu Gigi a prendersi cura di lei, portandola in ospedale nel taschino della sua camicia, e attendendo la fine della procedura. Lui si sarebbe vaccinato due mesi dopo, senza mai contrarre il virus. Una settimana dopo la prima dose, Lidia si rese conto dei primi benefici: la vista tornò quella di un tempo, il corpo filiforme si allungò di qualche centimetro, e soprattutto fu finalmente in grado di ricominciare a parlare. Dopo un’osservazione approfondita, chiunque avrebbe asserito che persino il colorito del vermino sembrava migliorato, qualunque cosa volesse dire. A Gigi non restò altro che sperare nel miracolo, ossia che potesse avere indietro la bella ragazza che amava. Nonostante la sottoposizione anche alla seconda dose e le numerose speranze nutrite nei confronti del progresso scientifico, Lidia non tornò mai alla sua forma umana. Grazie all’uso della voce, poté, nonostante tutto, conseguire la sua laurea in psicologia con il massimo dei voti. Pochi anni dopo, con i risparmi racimolati da Gigi, ormai un ingegnere affermato, e grazie al contributo della pensione di invalidità concessa dallo Stato a tutti i contagiati che non avevano recuperato la forma umana, riuscì ad aprire il suo primo studio psicoterapeutico. L’assenza di arti non le impediva di certo di ascoltare i pazienti, e la passione che la guidava, combinata con le competenze acquisite sul campo, l’aveva resa con il passar del tempo una psicoterapeuta portentosa. Al contrario, la richiesta divenne tanto elevata, anche a causa delle problematiche sorte in seguito alla pandemia, che spesso si trovò costretta persino a rifiutare i nuovi pazienti. Lidia e Gigi si sposarono esattamente dieci anni dopo la trasformazione della ragazza, con una cerimonia intima e toccante, che rifletteva l’essenza del loro amore: semplice, autentica, e al di là delle convenzioni. Sotto un arco di fiori di campo, Gigi pronunciò il suo "sì" con lo stesso entusiasmo e la stessa devozione del giorno in cui le aveva promesso di amarla, qualunque cosa accadesse. Lidia, racchiusa nel suo terrario decorato con nastri e petali, sembrava quasi brillare di felicità. I due condussero una lunga e serena esistenza insieme, l’una sempre disposta ad ascoltarlo, l’altro sempre pronto a coccolarla e prendersi cura di lei. Una mattina del giugno 2065, Gigi, ormai anziano e con la vista sempre più debole, non si accorse che Lidia si era rifugiata sotto il tappeto per riposarsi. Un attimo di distrazione, un rumore sordo: l’aspirapolvere aveva portato via l’amore della sua vita. La cercò in tutta la casa per giorni, prima di realizzare l’errore commesso. Devastato, Gigi organizzò il suo funerale con la stessa devozione con cui l’aveva amata per anni, e convertì il suo terrario in una graziosa urna funeraria. La raggiunse poco più di un anno dopo, a causa di un infarto fulminante, e, sotto propria richiesta specifica, venne seppellito al suo fianco. Nel terreno umido della loro tomba, altri vermini cominciarono ad avvicinarsi, formando un piccolo corteo che sembrava danzare attorno alla coppia. Lui non aveva mai smesso di amare il suo vermino, e ora che entrambi sono cibo per altri vermi, il loro amore echeggia in eterno, custodito nel respiro umido e silenzioso del suolo.
- Introduzione - Lo scoppio della Pandemia
copertina: Alen Marzo 2020. La pandemia del virus Circeus ha colpito l’umanità con la forza di un ciclone inarrestabile, trasformando vite e corpi con una brutalità senza precedenti. Scoppiato nell'Oriente remoto, il virus ha sconvolto ogni aspetto delle nostre esistenze in poche settimane, diffondendo un’infezione capace di cambiare radicalmente la nostra stessa essenza fisica: chiunque venisse infettato, dopo cinque giorni di incubazione, mutava in un animale. La mente rimane intatta, conscia della trasformazione, ma il corpo obbedisce a nuove regole. Il terrore che è seguito al dilagare del virus si è diffuso al pari della sua letale capacità di contagio. All'inizio, più che il timore, ha prevalso collettivamente l’incredulità: racconti di uomini mutati in maiali, bovini, pesci o uccelli provenienti da tutto il globo, rimbalzando sui notiziari e sui social network come storie incredibili, non potevano che essere frutto di un qualche scherzo crudele. Ma il virus non è una fantasia; il suo potere trasformativo, per quanto assurdo, è reale. I virologi, nuove e inaspettate celebrità del tempo odierno, hanno dimostrato che il virus deve il suo incredibile potere trasformativo alla propria struttura, simile per il 90% a quella del bruco. Proprio come l’insetto, il soggetto infetto attraversa le fasi della trasformazione, passando da larva a crisalide fino a mutare in una forma del tutto imprevedibile. Ad oggi, il motivo per cui un soggetto si trasformi in uno specifico animale risulta inspiegabile. Naturalmente, a lungo si è discusso sulle effettive origini del virus: alcuni hanno pensato che il paziente zero avesse mangiato bruchi vivi, altri che fosse stata creata appositamente in laboratorio per porre fine alla vita dell’uomo, altri ancora ne hanno negato l’esistenza stessa. La trasmissione del virus avviene per via orale e la sintomatologia iniziale prevede tosse, spossamento, perdita dei sensi dell’olfatto e del gusto, difficoltà respiratorie. Nel corso di poco più di un anno, come spesso accade se il contagio non riesce ad essere limitato, il virus si è diffuso a livello globale e ha mutato la sua stessa forma, dando vita a innumerevoli varianti e sintomatologie. Se inizialmente le vittime si trasformavano esclusivamente in suini – da cui il nome di virus Circeus, in riferimento alla maga omerica –, in poche settimane la gamma di specie animali si è allargata esponenzialmente. Dopo l’Asia, ha colpito l’Europa, espandendosi successivamente in Africa e America. L’Oceania è stato l’ultimo continente colpito, due mesi esatti dopo il primo contagio, ma infine ha completato lo sventurato quadro pandemico, riversando sulle strade canguri e koala, che prima del virus erano surfisti e avvocati. Nel giro di pochi mesi, le città hanno cambiato volto, popolate da creature incapaci di vivere come un tempo. Le istituzioni si sono trovate a fronteggiare crisi mai viste prima, con la forza lavoro decimata e trasformata in esseri senza più mani, né voce, né capacità di eseguire le proprie professioni. Ben presto lo scetticismo ha lasciato spazio al panico generale, complici le propagande del terrore da parte dei governi. Per evitare il contagio, prodotti come guanti, mascherine e disinfettanti sono immediatamente diventati di uso comune, arricchendo enormemente le case farmaceutiche. Nonostante le innumerevoli precauzioni imposte e adottate, la diffusione del virus è risultata impossibile da contenere, e alla fine del mese di marzo 2020 è stato dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità lo stato di pandemia. Una delle imposizioni più forti e che certamente hanno maggiormente stravolto le nostre vite è stata la quarantena, durata più di due mesi: i governi hanno intimato alle persone a rimanere in casa, costringendole a vivere una routine monotona che mescolava tristezza e terrore. Le giornate sono trascorse lentamente, in maniera ripetitiva, fino a rendersi indistinguibili l’una dall’altra, tra le mura delle case e con lo sguardo rivolto fuori dalle finestre, nella speranza che il vento portasse con sé la fine di quella situazione tremendamente surreale. Nel frattempo è iniziata la corsa per la ricerca di una cura da parte dei centri scientifici e dei governi, mentre si è fatta strada nei cuori di tutti la consapevolezza che il mondo come lo conoscevamo era cambiato per sempre. Con il tempo si è imposta una nuova normalità, costituita da barriere e protezioni, mentre l’umanità stessa si è trovata divisa tra uomini e animali, convivendo in un equilibrio fragile, legati dal virtuale filo delle comunicazioni tecnologiche, sempre più all’avanguardia. Il virus è irrotto prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha costretti a riflettere sulla vulnerabilità dell’essere umano, sulla fragilità di quelle che credevamo delle certezze e sull’illusione della nostra invincibilità. E così, l’umanità intera, ripensando al mondo che aveva perso e a quello che stava cercando di costruire, ha imparato a prendere consapevolezza del fatto che non vi fosse nulla di scontato, nemmeno la propria forma.
- Tauromachia, Capitolo I
copertina: Alen La città di Valencia splendeva sotto il tanto atteso sole caldo e ristoratore di marzo. La Plaza de los Toros, cuore pulsante della città, era insolitamente gremita di persone, complice l’intervento da parte del governo nell’abbassare i prezzi del biglietto per la corrida. «Hai visto? Hai visto che il berretto è atterrato dritto?» gridò Miguel a Ines, la ragazza che sedeva al suo fianco, sugli spalti. «E quindi?» domandò lei, svogliata. «È segno di buon auspicio: significa che la corrida andrà a buon fine». «Non credo che il toro la pensi allo stesso modo». Miguel Garcia era il fratello del matador di quella giornata, Rafael Garcia, nonché figlio del celebre matador Javier Garcia, deceduto quando Miguel aveva otto anni. Era cresciuto nelle arene dei toreri, inalando la polvere dell’arena e scrutando il sangue vermiglio dei bovini sgorgare sul terreno. Quando il toro fuoriuscì prepotentemente dalla porta del toril , Miguel si alzò in piedi e batté fragorosamente le mani: niente al mondo lo esaltava quanto assistere allo spettacolo della corrida. Ines gli scoccò un’occhiata infastidita, masticando una gomma. La vistosa cicatrice sulla guancia destra del ragazzo pareva brillare alla luce del sole. Essa era il risultato di un allenamento durante l’infanzia, in compagnia del padre e del fratello, conclusosi con un ruzzolo a causa di un toro impazzito. Nonostante il dolore, Miguel ricordava quel giorno con grande soddisfazione: suo padre si era preoccupato per lui, gli aveva offerto una bibita fresca e, con un’incoraggiante pacca sulla spalla, si era congratulato con lui per l’eroismo con cui aveva tentato di fermare il toro. Il ventiduenne si apprestò a spiegare in maniera dettagliata le fasi della corrida man mano che si mostravano ai loro occhi. «Vedi, è tutto un balletto di coraggio e abilità. Prima c'è la fase di lancio della capa , dove il torero usa il mantello per attirare l'attenzione del toro e prepararlo per la faena ». «Onestamente non capisco come possa essere considerato un "balletto". È crudele e spietato. Questi animali non meritano un trattamento del genere». Miguel parve non sentire una parola della risposta. «Poi c'è la fase delle banderillas , dove il picador infilza il toro con le lance colorate, ma deve centrarlo con precisione… eccolo, bravissimo!». Ines ignorò per una manciata di secondi la pedante spiegazione di Miguel, distratta dal singolare discorso di una coppia di amici seduti nella fila davanti alla loro. «Presto questo posto sarà chiuso e ci manderanno tutti a casa: hai sentito di quel virus dalla Cina?» domandò il primo. «Tutte cazzate, fidati di me. Guardati attorno, ti sembra che qualcuno stia male?» rispose l’altro. «Ho sentito che i delfini dell’Oceanografico erano persone prima. Hanno eliminato i delfini veri e li hanno sostituiti con le vittime del virus: è più facile insegnare a saltare e danzare a delle persone in corpi di pesci, no?». L’altro rise rumorosamente, interrompendo per un attimo lo sproloquio di Miguel, che riprese subito dopo. «Ma senti quante stronzate, Jorge. A parte il fatto che i delfini sono mammiferi e non pesci, dovresti guardare meno i telegiornali e goderti di più la vita». Levò in alto il grosso bicchiere di birra che aveva in mano e diede un amichevole spallata al compagno. Ines pensò che entrambi fossero solo due vecchi ubriachi, e decise di riprendere la conversazione con Miguel, interrompendolo con un cenno della mano. «Quindi, giusto per capire, non solo un tipo ridicolo, vestito in calzamaglia, uccide il toro ad armi impari…». «Il matador » la interruppe Miguel. «Lui. Non solo questo matador lo uccide in modo barbaro, ma in più questi altri lo indeboliscono con delle lance. Ti rendi conto che è disumano e scorretto, vero?». Miguel pensò che non fosse il caso di dirle che il toro prima dell’incontro veniva drogato e colpito ripetutamente sui reni, in modo tale da venire innervosito, oltre che avere la vista annebbiata dalla vaselina e il respiro ostruito dalla stoppia nelle narici. Nonostante fosse ben consapevole del trattamento ignobile riservato al bovino, c’era qualcosa nell’antica arte della tauromachia che lo eccitava quanto l’ebbrezza di fare l’amore. «Tu non puoi capire: è una danza tra la vita e la morte, tra l’uomo e la bestia, tra l’uomo e sé stesso. Solo chi sta sull’arena può capirlo». «Non voglio capire, Miguel. Se non fosse per la festa di più tardi me ne sarei già andata». «Ecco Rafael!» esclamò Miguel, alzandosi in piedi e battendo le mani, eccitato. Con due dita sulle estremità della bocca, emise un forte fischio che infastidì Ines ulteriormente. Osservava, avido di sangue, il giovane matador sull’arena. Rafael, nell'arena, indossava il tradizionale traje de luces dorato, che catturava ogni raggio di sole, facendolo scintillare come un idolo antico. La giacca era corta, aderente e ornata di ricami dorati elaborati, che creavano motivi floreali e arabeschi. Le spalle erano decorate con rigonfiamenti rigidi chiamati hombros , arricchiti da nappe che pendevano come piccole cascate dorate. Il panciotto aderente, sotto la giacca, dello stesso tessuto, evidenziava la figura atletica del fratello ventottenne, mentre la camicia bianca sotto di esso era impeccabilmente stirata, con un colletto alto e una cravatta di seta nera legata con un nodo preciso. I pantaloni, altrettanto stretti, erano realizzati in seta nera, ornati con motivi dorati lungo i lati, e terminavano appena sopra il ginocchio, lasciando intravedere le calze di seta rosa. Le scarpe, nere e lucide, erano leggere ma resistenti, con suole sottili per consentire precisione e rapidità nei passi. Il tocco finale era il montera , il tradizionale cappello del torero, realizzato in velluto nero e decorato con un motivo ricamato in oro. «Devo ammettere che tuo fratello ha il suo fascino, vestito così» commentò la ragazza. Miguel finse di ignorarla e, saltando sul posto, incitò il fratello a finire una volta per tutte il toro. Il bovino, grosso due volte Rafael, respirava affannosamente, mentre stretti rivoli di sangue sgorgavano dalle due picadores conficcate nei muscoli delle spalle. Rafael tirò fuori il drappo rosso, a pochi metri dall’animale. Quello scalciò e abbassò il muso, puntando con le corna verso di lui. Con un balzo, il gigantesco toro caricò l’uomo, che con un’agile giravolta lo schivò, gettandosi di lato. Rafael ripeté la scena più volte, facendo innervosire sempre di più l’animale, e dando prova al pubblico delle sue leggiadre movenze. Ines, nel frattempo, si era coperta il volto con le mani, e sbirciava con l’occhio sinistro dallo spiraglio formatosi tra le dita. Miguel si era aggrappato con veemenza al sedile davanti al suo. Si era totalmente dimenticato della ragazza al suo fianco: per lui esisteva solo la scena che gli si parava davanti, il sottile sentiero del fratello tra la vita e la morte. « Matalo, hermano !» gridò. Rafael balzò verso il toro, sfoderando la spada, chiamata estoque . L’intera arena sospirò all’unisono. Persino Miguel tacque, con il fiato sospeso. La spada si infilò esattamente al centro della fronte del toro, come la tortilla nella salsa guacamole, come se fosse quello il luogo a cui l’arma era sempre stata destinata. Quando Rafael sfilò con un solo gesto la spada dal cranio del toro, quest’ultimo cadde di lato, e il matador lo schivò per un soffio. L’intera arena osservò, insieme a Rafael, il povero animale agonizzare, mentre fiotti di sangue sprizzavano dal buco sulla fronte. Si dimenò con tutto il corpo per poco più di un minuto, agitandosi nella poltiglia creata dal miscuglio tra il suo stesso sangue e la terra dell’arena, finché non smise di muoversi. Rafael sorrise, soddisfatto, e si voltò verso il pubblico, allargando ambedue le braccia al cielo. Quando tutta l’arena scoppiò in un fragoroso applauso, si inchinò più volte di fronte a essa. Miguel fu il primo a tirar fuori dalla tasca il fazzoletto bianco, seguito da gran parte del pubblico, in segno di trionfo. Il fratello maggiore sentì il cuore battergli impazientemente nel petto, sommerso dall’adrenalina e fiero della perfetta riuscita della performance. Incrociò l’altrettanto orgoglioso sguardo del fratello sugli spalti, ma distolse lo sguardo immediatamente. Si tastò il petto e indicò il cielo con un dito, riferendosi a una persona nello specifico. « Papa sarebbe fiero di te» sussurrò Miguel, fingendo di ignorare la schivezza con cui il fratello aveva reagito al suo sguardo, come ad ogni incontro. Ormai si era abituato a tale dinamica, ma ogni volta sperava che ricambiasse il suo orgoglio, il suo sorriso. Rafael tentò di celare la propria emozione, si levò il montera e lo lanciò verso il pubblico, in segno di gratitudine. «E ora cosa fanno?» domandò Ines inorridita, lo sguardo fisso sul corpo esangue dell’animale, sul quale i due picadores si chinarono con un coltellaccio in mano. «Tagliano le orecchie del toro per donarlo al matador ! È un segno di grande riconoscimento da parte del presidente». Dopo quella che agli occhi di Ines parve una scena raccapricciante, i picadores donarono teatralmente le orecchie del toro a Rafael, il quale ringraziò e le mostrò al pubblico. Un carro trainato da due cavalli portò via il corpo del toro, lentamente e solennemente. «Vedi, se lo spettacolo non fosse stato avvincente, il carro sarebbe uscito velocemente dall’arena, per mostrare sdegno di fronte a Rafael. Invece vedi come va lento, che onore!» spiegò Miguel. «Gli basterà il mio di sdegno!». Quella sera, come da tradizione, festeggiarono in un tapas bar di fronte alla spiaggia di Malvarrosa. Le tavole erano imbandite di tapas di ogni tipo: prosciutti, patatas bravas, tortillas , ma soprattutto litri di sangria e tinto de verano purpurei, e pinte di birra dorate scorrevano a fiotti nei bicchieri degli invitati. Naturalmente, il protagonista della festa era Rafael, il quale aveva affittato il locale e offerto da bere e da mangiare a tutti per celebrare il proprio trionfo. La musica riempiva la sala con le note di salsa e bachata, fin troppo irresistibile per impedire alle coppie presenti di iniziare a ballare al centro della stanza. Miguel sedeva al bancone, accanto a una Ines leggermente ebbra, che continuava a fissare il ragazzo negli occhi nell’attesa che le chiedesse di ballare, mentre con il dito accarezzava il bordo del bicchiere di cristallo colmo di sangria. Come al solito, lui non riusciva a smettere di parlare della corrida. Ines non sapeva nemmeno per quale motivo avesse accettato l’invito di Miguel ad assistere a un evento del genere, che lei aveva sempre considerato barbaro e inguardabile. Vi era qualcosa, tuttavia, in quel ragazzo dalla cicatrice sul viso, che la intrigava e incuriosiva. D’altronde, le erano sempre piaciuti, fin dalle prime frequentazioni adolescenziali, i ragazzi particolari, spesso ossessionati dallo sport e pieni di sé, dal colorito mediterraneo, i capelli scuri e arruffati, e dallo spirito indomabile e indecifrabile. Si era spesso trovata a uscire con uomini che sembravano disinteressati a lei, e aveva sempre ignorato quelli innamorati. In un certo senso si poteva dire che Ines amava le sfide, e con Miguel aveva trovato un bel rompicapo da sbrogliare. Non per niente, si trovava all’ultimo anno di studi per diventare un’infermiera. Aveva incontrato Miguel in quello stesso bar, e il primo elemento che aveva notato era stata proprio la cicatrice sul volto, seguito dallo sguardo misterioso, incuriosito dal mondo, ma che sembrava celare una profonda malinconia. All’ennesimo discorso sui movimenti fluidi ed eleganti della performance del fratello di quel giorno, fece per alzarsi e abbandonarlo, quando venne in suo soccorso Rafael. «Vi state divertendo?» domandò, con la sua voce profonda. La bocca sorrideva, ma la luce dei suoi occhi verdi pareva celare una tristezza ancora più misteriosa e profonda di quella del fratello minore. «Sì, Rafael, grazie per la birra» rispose Miguel. Il tono di voce parve più mansueto del solito, alle orecchie di Ines. «Le birre» lo corresse Rafael, gettando un’occhiata alle tre pinte vuote di fronte al fratello e sorridendo alla ragazza. «Già, scendono come acqua. Ti ringrazierei anche per il cibo, ma non capisco perché sia tutto così sciapo». Rafael ignorò la critica sterile e volse lo sguardo verso la ragazza. «A te come va, corazón ?». «Tutto bene, grazie. Il cibo è buonissimo, non so di cosa stia parlando Miguel» rispose con voce imbarazzata Ines, che non si aspettava tanta cordialità da quella che sembrava essere la celebrità dell’evento. «Lascialo stare. Ti sta riempiendo di discorsi inutili sulla corrida, vero? Hermanito , falla divertire un po’, è una fiesta !». Miguel gettò una rapida occhiata sulla ragazza, e comprese dall’espressione sul suo volto che si stava annoiando. Provato da un leggero senso di colpa, fece per invitarla finalmente a ballare, quando Rafael gli cinse le spalle con il braccio e lo tirò a sé. «Posso rubartelo per un attimo, corazón ?» domandò a Ines, sorridendo spavaldamente. Si voltò prima ancora che lei potesse rispondere, e si incamminò verso l’uscita del locale insieme al fratello. «Sembra simpatica, questa Ines». Miguel annuì. «Già, ma non mi sembra tanto presa». «Certo, le parli solo della corrida. Le donne devi corteggiarle, ballare con loro, ma soprattutto devi saperle ascoltare. Hai ancora molto da imparare, hermanito ». Una volta usciti dal bar, Rafael gli diede un buffo affettuoso sulla nuca, e per un attimo rimasero in silenzio, ad ascoltare lo scroscio delle onde in lontananza che sovrastava la musica nel locale. Una rinfrescante brezza primaverile soffiava sui loro volti, e una argentea luna si specchiava sul mare sereno. «A proposito, domani hai tempo per allenarti con me nell’arena?» «Non so Miguel, sai che il pomeriggio ho un altro incontro, ed è il più importante della stagione». «Dicono che sia lo stesso toro che ha… insomma, è vero?». «Sì, è la stessa razza. Pare che sia anche più grande di quello di papa ». «Hai paura?» «Il toro non è mai il vero nemico. È tutto il resto: la folla, la pressione… quegli attimi in cui sai di non poterti permettere di sbagliare». «Lo diceva anche papa , prima che quel toro…» «Ne abbiamo già parlato, Miguel. Io non do la colpa al toro». Miguel si raggelò, come ogni volta che ripensava a quella scena. Un applauso, un fischio, un grido. L’ultimo sguardo bonario di Javier Garcia, rivolto al più giovane dei suoi figli. Un attimo di distrazione, poi un tonfo sordo, le grida terrorizzate della folla, il sangue che scorreva sull’arena. «Oggi lo hai fatto di nuovo, sai? Quante volte ti ho detto che non devi farlo?». «Già, ti chiedo scusa. È che non me ne accorgo nemmeno». Rafael scrutò attentamente il fratello, con il suo sguardo malinconico e curioso. Socchiuse gli occhi e sorseggiò la sangria dal calice che aveva portato con sé, in silenzio. Miguel sollevò gli occhi da terra, evitando le occhiate del fratello, e allungò lo sguardo verso il mare. «Senti, io rientro. Conviene anche a te, prima che qualcuno ti porti via Ines». «Rientro tra un attimo» rispose Miguel, distratto. Rafael posò lo sguardo sul fratello un’ultima volta. Senza essere notato, avvicinò la mano alla sua spalla, nel goffo tentativo di rassicurare qualsiasi marea che tumultuava dentro il suo animo, salvo ritrarre la mano all’ultimo istante, per rientrare nel locale con un sorriso fintamente divertito. Miguel inspirò lentamente, nel tentativo di annusare nell’aria il profumo salmastro del mare, come soleva fare durante le estati d’infanzia, ma non sentì alcun odore: il mondo pareva impassibile di fronte alla sua malinconia. Si voltò verso il locale, e intravide con la coda dell’occhio una Ines divertita, danzare sorridente tra la folla. Diede un colpo di tosse, e decise che non aveva alcuna voglia di ballare. Si incamminò verso la spiaggia, a pochi metri, e si sedette vicino alla riva, di fronte alle onde che placide battevano sulla battigia.
- L'amore ai tempi del complottismo
copertina: Alen Aldo e Pinuccia si conobbero al pub della piazza dove si era appena conclusa la manifestazione dei “no vax”, alla quale entrambi avevano attivamente partecipato. Lui era un insegnante di scienze nell’istituto agrario in periferia e veniva definito dai pochi amici che ancora lo accompagnavano come un “non credente”: Aldo non credeva in praticamente niente. Innanzitutto, non credeva nell’esistenza della malattia che aveva colpito gran parte della popolazione mondiale negli ultimi sei mesi. Sosteneva fermamente, al contrario, che essa fosse il prodotto di un esperimento scientifico perseguito dai cosiddetti “capi del mondo”, gli uomini ricchi e potenti che, a detta di Aldo e di quelli come lui, nascondono i più nefasti e profondi segreti dell’universo alla popolazione globale. Lo scopo di creare una pandemia fittizia secondo Aldo? Semplicissimo: vendere ai cittadini i vaccini, con i quali inserire il microchip che li avrebbe controllati. Ciò a cui non aveva pensato Aldo è che verosimilmente ai “capi del mondo” – sempre che costoro esistessero sul serio – non interessava minimamente seguire le sue lunghe e contorte spiegazioni di falsa scienza ai ragazzini annoiati di un istituto agrario di periferia. Tra le altre credenze di cui Aldo era fermamente convinto vi erano il fatto che la Terra era piatta, che i piccioni erano droni costruiti dal governo per spiare i cittadini, che i telegiornali manipolavano le menti degli spettatori con immagini distorte della realtà e che persino l’acqua fosse un’invenzione delle multinazionali per lucrare sulla falsa convinzione che essa servisse alla sopravvivenza dell’uomo. Nonostante egli non credesse ad una sola parola detta in televisione, Aldo ricavava gran parte delle sue ferme convinzioni dai social network e dai forum di persone simili a lui. Lei era una pediatra che confidava ben poco nella medicina e detestava i bambini. La sua intera esistenza rappresentava di per sé un controsenso. Proprio come Aldo, Pinuccia non credeva ad una sola parola pronunciata dal governo riguardo alla pandemia. Quando i genitori dei suoi pazienti la chiamavano allarmati lamentando che i propri figli iniziavano a grugnire o a presentare il principio di una coda, lei riattaccava immediatamente e bloccava il numero. Era fermamente convinta che si trattasse di uno scherzo organizzato da tutti i suoi pazienti e dalle persone che la conoscevano per farle dare di matto. «Non mi fregano questi» divenne la frase da lei maggiormente pronunciata, nei giorni successivi allo scoppio di quella che credeva una “falsa pandemia”. Aldo trascorse il periodo della quarantena a leggere, analizzare e revisionare le teorie complottiste presenti in tutti i forum possibili, in modo tale da svilupparne di altrettanto assurde e stupire i suoi simili. Arrivò a costruire un modello di silicone della Terra come lui pensava che fosse: piatta. Pinuccia passò le giornate a fumare, scorrere svogliatamente i post degli altri sui social network e protestare al telefono con la madre malata di Alzheimer di come le persone stessero impazzendo a credere alla pandemia di cui tutti parlavano. Il vantaggio, per lei, fu che la sua sventurata madre dimenticasse ogni giorno l’argomento della chiamata precedente, cosicché la conversazione potesse proseguire all’infinito. Fu un puro caso che i due non si fossero incontrati sui forum dei complottisti o non capitassero sotto i commenti dello stesso post contro il governo e la scienza. Fu solo quando la quarantena terminò, e si poté nuovamente uscire di casa indossando la mascherina, che i due iniziarono a frequentare gli stessi locali e piazze nei quali l’unico argomento di cui si poteva disquisire era l’assurdità dell’esistenza dell’epidemia che li aveva rinchiusi in casa per i precedenti due mesi. Si intravidero più di una volta, nelle strade della città semivuota, e si riconobbero proprio perché erano tra i pochissimi a non indossare la mascherina. La scintilla tra i due, tuttavia, scoppiò proprio la sera della manifestazione contro i vaccini e le mascherine, al pub maggiormente frequentato dai “no vax” della città. Aldo posò il cartello che paragonava la richiesta d’uso della mascherina alla detenzione degli ebrei nei campi di concentramento sul tavolo, prima di sedersi a bere una birra con il suo amico Ettore, intento a ripulire i suoi ingombranti baffi dalla schiuma della terza pinta. Pinuccia sedeva nel tavolo dietro il loro e sorseggiava un Margarita insieme alla sua collega Rossella, mentre giocherellava con le finte perle della sua vistosa collana. «Che poi…» cominciò Aldo. «…è evidente che Bill Gates sia a capo dei potenti e voglia immetterci il microchip con i vaccini per poterci controllare» dissero contemporaneamente, con il medesimo tono di voce, Aldo e Pinuccia. Fu una scena surreale: sia Ettore che Rossella poggiarono sul tavolo i loro bicchieri, increduli, mentre i due si voltarono l’uno verso l’altro. Si guardarono negli occhi per un solo secondo, e sorrisero. Pinuccia si sistemò i capelli dietro l’orecchio, Aldo sollevò il colletto della polo, come farebbero due adolescenti in preda ad una cotta. Le due donne si unirono all’altro tavolo e i quattro intrattennero lungo l’arco della serata le più assurde e colorate conversazioni complottiste riguardanti qualunque argomento. Fu una delle più belle notti della vita di Pinuccia, e senza dubbio la più entusiasmante di quella di Aldo. Rossella, d’altro canto, tentò più volte di attirare l’attenzione di Ettore, mentre quest’ultimo sembrava più interessato a scolarsi la sesta birra bionda della nottata. Negli sguardi e nei sorrisi che Aldo e Pinuccia si scambiarono durante la serata era racchiuso tutto l’amore che non avevano provato e ricevuto nei decenni precedenti. Quando Aldo le sfiorò le dita con delicatezza, nell’assicurarle che le avrebbe pagato il successivo cocktail, il cuore di Pinuccia saltò un battito. In principio accusò l’eccessiva dose di alcol presente nel suo stomaco, ma più tardi, quella notte, avrebbe finalmente ammesso che non era altro che il principio di un’infatuazione. Quando, tra una conversazione assurda e l’altra, si giunse all’orario di chiusura del pub, il piccolo gruppo si rese conto che nessuno di loro era nelle condizioni di guidare per tornare a casa. Aldo, inebriato dall’eccitazione che provava per la donna appena conosciuta e dalle sette birre della serata, prese a braccetto Pinuccia e si incamminò verso casa sua, poiché lei non era in grado di riferirgli il proprio indirizzo. Come Ettore e Rossella, entrambi ubriachi fradici, tornarono nei rispettivi appartamenti, rimane ancora un mistero. Giunti di fronte all’ingresso del palazzo dove abitava Aldo, mentre quest’ultimo faceva un’immane fatica ad inserire correttamente la chiave nella serratura, Pinuccia decise di gettarsi tra le sue braccia con la prontezza che le era mancata per tutta la vita. Aldo, dapprima confuso, lasciò cadere a terra le chiavi e avvolse la donna con le sue grosse braccia, stringendola forte a sé. I due, illuminati da un minuscolo spicchio di luna, si scambiarono un lungo, impacciato, umido, appassionato bacio, come quelli che si scambiano gli adulti, dopo anni che le loro lingue hanno incrociato solo il coperchio dello yogurt per ripulirlo minuziosamente. Riusciti nell’impresa di salire le due rampe di scale che portavano al pianerottolo di Aldo, i due continuarono a baciarsi, presi dall’impeto del momento, ed infine si gettarono a letto. Tuttavia, complici la stanchezza e l’ebrezza alcolica, sprofondarono in pochi minuti nel sonno, cosicché dormirono pacificamente per tutto il resto della notte presi per mano. Il giorno successivo, i due si scambiarono un frettoloso bacio, prima di discutere sul primo argomento della giornata: la colazione. Pinuccia sosteneva infatti che il caffè fosse una delle cause principali dei tumori al seno, mentre Aldo nella dispensa non aveva neanche un pacco di biscotti perché, a detta sua, questi non erano altro che un prodotto chimico venduto ai bambini con la menzogna che il mondo fosse un bel posto in cui vivere. Dopo una lunga discussione, entrambi presero la decisione di mangiare una mela al volo prima che Pinuccia uscisse dall’appartamento di Aldo, per recarsi nel suo studio. Aldo, invece, come ogni mattina, indossò una camicia sgualcita e una giacca a quadri sopra le mutande, e si puntò la telecamera del computer in volto per iniziare la sua lezione di scienze online. La mattina trascorse in maniera pressoché simile per entrambi. Pinuccia staccò il telefono per evitare che i pazienti facessero domande inopportune sui vaccini, ma fu costretta a discutere lo stesso in maniera a dir poco colorita con alcune madri di pazienti che la chiamarono al numero del cellulare personale. L’unico motivo per cui aveva risposto era la speranza che si trattasse del corriere che doveva farle recapitare a casa le nuove scarpe ordinate online. Anche Aldo, nel frattempo, si trovò costretto a discutere con i ragazzini testardi che credevano nella vaccinazione di massa, per cercare di convincerli che all’interno di essi vi era il DNA di neonati morti durante il parto. Entrambi, dopo aver concluso le rispettive diatribe, sbuffarono al pensiero di quanto fosse difficile la vita di coloro che hanno ragione di fronte a un mondo che è nel torto. Nelle settimane successive, i due si incontrarono ogni giorno, a casa di uno o dell’altra, o nei bar la sera o in piazza a manifestare contro l’uso della mascherina e contro l’esistenza della malattia. I pomeriggi li passavano a litigare online con i sostenitori del vaccino, a guardare indignati i discorsi pro-vaccino dei virologi in televisione e scambiarsi sguardi languidi da una poltrona all’altra. I due si sostenevano a vicenda nell’insormontabile convinzione che il resto della popolazione fosse in torto. La loro indignazione era direttamente proporzionale all’amore che provavano l’uno per l’altra, cosicché tanto più la situazione pandemica peggiorava tanto meglio procedeva la loro relazione. La notte non facevano l’amore, poiché entrambi credevano che le multinazionali dei contraccettivi non andassero arricchite più di quanto non lo fossero già, e Pinuccia non aveva intenzione di rimanere incinta prima del matrimonio. Alla parola “matrimonio” il povero Aldo impallidì, ma si diede un contegno nel vedere il sorriso della donna. Così le giornate divennero settimane, le settimane mesi ed infine trascorsero nove mesi dal loro primo incontro. I due non potevano essere più felici, nonostante la vita per i “no vax” non fosse tanto facile negli ultimi tempi. Per indurre maggiormente la popolazione a vaccinarsi contro il virus Circeus , il governo aveva creato il green pass , documento che certificava almeno una dose di vaccino in corpo e che concedeva alle persone di muoversi senza restrizione e di ricominciare finalmente a riprendere a vivere. Naturalmente la diffusione di questo documento accentuò maggiormente le differenze tra “no vax” e gli altri, rendendole evidenti alla legge e fomentando al contempo l’odio da parte di coloro che ne erano privi. Senza di esso i due innamorati non potevano mangiare al ristorante, partecipare ad eventi culturali e, come sarebbe stato deciso pochi mesi dopo, neppure lavorare. Pinuccia rischiava di essere radiata dall’albo dei medici, e Aldo di essere temporaneamente licenziato. Ad ogni modo, nessuno dei due aveva alcuna intenzione di retrocedere riguardo alle proprie convinzioni: costasse quel che costasse, avrebbero combattuto, loro due contro il mondo. Le discussioni online sui vaccini divennero sempre più accese, così come la loro passione, che tuttavia continuarono a non consumare. Si scambiavano intensi baci e lunghi e affettuosi abbracci, e si reputavano felici, poiché avevano l’un l’altra. La situazione, tuttavia, precipitò a partire da un torbido mercoledì pomeriggio, quando Pinuccia tossì per la prima volta. Il giorno dopo lo fece anche Aldo, e i due si resero conto di non stare bene: la tosse si intensificò, e con essa un bruciante mal di gola e un incessante mal di testa. Al terzo giorno, la temperatura corporea dei due salì a 39,5 gradi centigradi, e Pinuccia sentì uno stravagante formicolio in tutto il corpo. Il giorno dopo lo stesso avvenne ad Aldo, il quale notò che la mano stava prendendo un colorito fin troppo rossastro. Nonostante fino all’ultimo continuassero a negarlo, i due avevano contratto il virus. Senza vaccino, d’altronde, era stata solo una questione di tempo. Due giorni dopo aver perduto persino il senso del gusto e dell’olfatto, i due si ritrovarono sdraiati a letto insieme. Dopo una notte trascorsa in stato larvale, Aldo si era tramutato in aragosta, e Pinuccia in un piccolo criceto. Si stringevano a vicenda la zampa e la chela, il più delicatamente possibile, e sospiravano in attesa di una guarigione che sarebbe potuta arrivare dopo due mesi come mai più. Probabilmente se avessero rinunciati alla loro cocciutaggine e si fossero vaccinati non si sarebbero trovati in quella situazione, ma non lo rimpiansero nemmeno un secondo, fermamente convinti della propria decisione. Il rimpianto che tormentava i pensieri di entrambi, anche se mai avrebbero ammesso ad alta voce, era uno solo: “certo che almeno l’amore, quello, avremmo potuto farlo”.
- Foie Gras
copertina: Alen Matt aveva sempre dimostrato di possedere un senso di meraviglia distorta verso i meccanismi di potere e di controllo. All’età di undici anni, era un ragazzino solitario e scontroso, le cui uniche, singolari, passioni erano l’informatica, il linguaggio della programmazione e, sebbene i genitori si rifiutassero di ammetterlo, un senso innato di sadismo. La madre Louise gli intimava spesso di uscire dalla sua cameretta, per giocare in giardino o con qualche vicino di casa, ma ogni volta Matt la cacciava via con un brontolio infastidito e un cenno della mano. Il più delle volte lei si limitava a osservarlo sull’uscio della stanza, con la spalla poggiata allo stipite della porta, immerso nel buio, il volto illuminato dallo schermo verdognolo del monitor. Né il padre né la madre riuscivano mai a capire cosa stesse combinando con quell’aggeggio infernale. In una giornata estiva particolarmente torrida, il ragazzo diede ascolto al consiglio della madre, più per noia che per obbedienza, e si recò in giardino con nient’altro che una lente d’ingrandimento trovata in soffitta. Rannicchiato sul prato, circondato dai nani da giardino che la madre aveva comprato in super sconto al mercato dell’usato, aveva osservato per ore un’interminabile fila di formiche marciare in maniera perfettamente ordinata dietro la loro regina. Come un puma in allerta per cacciare la propria preda, Matt aveva atteso immobile che le formiche facessero ritorno nel loro formicaio, chi sorreggendo una briciola di pane, chi un filo d’erba esageratamente grande per il suo minuto ma forte corpicino. Avendo calcolato l’altezza perfetta del sole per scaldare con i suoi raggi il punto in cui era seduto, l’undicenne aveva colto il momento esatto e inclinato la lente in modo tale da riflettere la luce direttamente sul formicaio. Con pazienza e fermezza di polso, aveva aspettato la riuscita del suo piano: dopo un’attesa che alcuni avrebbero definito infinita, ma che Matt non sentì affatto, complice l’inesauribile brama di vedere cosa sarebbe accaduto, il formicaio prese infine fuoco. Louise e Carl, suo marito, lo ritrovarono poco dopo, gongolante e immobile di fronte al suo capolavoro: per la prima volta dopo mesi, sembrava sorridere. Gli sguardi dei nani da giardino attorno a lui parevano inorriditi, circondati da un cimitero di formiche, alcune già carbonizzate, altre ancora agonizzanti sotto le flebili lingue di fuoco. Ciò che aveva scaturito in Matt una tale gioia, la qual cosa i genitori non riuscivano a spiegarsi, era il pensiero che tutte quelle creature si fossero piegate al suo volere, giungendo in massa nel luogo che lui aveva prestabilito, e subendo impassibili la sua punizione: si era sentito Dio, il padrone dell’universo. L’indomani sera, come scusa per festeggiare il suo compleanno, ma con la reale intenzione di parlargli del preoccupante evento del giorno precedente, decisero di portarlo a mangiare in un ristorante in centro. Attirato dal desiderio di patatine fritte, dopo non poche discussioni, Matt acconsentì infine a cenare fuori con i genitori. Non sapeva ancora, tuttavia, che quella sera la sua vita sarebbe cambiata. Una volta sedutosi al tavolo, Carl tentò invano di iniziare la conversazione, ma il giovane si schermò il viso con il menù e finse di esserne interessato. Rimase tuttavia incuriosito da una parola francese in fondo al menù, cosicché domandò ai genitori cosa significasse. La parola era: foie gras. La madre, temendo che la verità avrebbe alimentato ulteriormente il sadismo del figlio, fece per inventare un significato e addolcire la pillola, ma il padre volle essere brutalmente onesto. «Si tratta del fegato dell’oca, che viene fatto ingrossare da un’alimentazione forzata, spesso con del mais, attraverso un tubo in gola, in modo tale che ingrossi sempre di più e risulti più gustoso. In Francia è una prelibatezza». Sotto lo sguardo stizzito di Louise, Matt rimase immediatamente affascinato da questo concetto, a tal punto che decise di ordinarlo per cena. Lo trovò delizioso. Durante le successive settimane, il concetto alla base del foie gras gli rimase impresso nella mente: come si poteva costringere una creatura dotata di cervello, istinto e volontà, a consumare qualcosa controvoglia e ripetutamente, fino a deformarsi, trasformando la propria sofferenza in piacere per coloro che la torturavano? Crescendo, Matt non dimenticò mai il foie gras mangiato quella sera, e coltivò ogni giorno la sua passione per l’informatica. Isolato tra le mura della sua cameretta, ma con il feroce desiderio di lasciare il suo segno nel mondo, privo di amici durante l’adolescenza, trovò nella logica dei codici informatici un’arma e un rifugio. Seguì delle lezioni professionali e imparò alla perfezione il linguaggio della programmazione. Venne definito da più insegnanti “un vero e proprio genio”, perciò non ci fu da stupirsi, quando passò al primo colpo la selezione per l’iscrizione alla più prestigiosa università di informatica dello Stato. Durante gli anni del college, Matt non mitigò il suo atteggiamento schivo e solitario. Al contrario, si chiuse in sé stesso e si trovò a vivere il completo isolamento sociale ancor prima della pandemia che lo avrebbe reso obbligatorio per tutto il mondo. I corridoi dell’università, affollati di coetanei che si muovevano in gruppetti, sghignazzando rumorosamente e scambiandosi confidenze, apparivano a lui come una giungla ostile. Matt era troppo timido per inserirsi, troppo cinico per cercare di adattarsi, e troppo intelligente per passare inosservato. Se durante le lezioni si dimostrava il primo della classe e veniva spesso lodato dai professori, nei momenti ricreativi i colleghi non nascondevano affatto la loro avversione nei suoi confronti. Ben presto si ritrovò escluso da ogni comitiva, osservatore silenzioso del mondo, piuttosto che un partecipante. Dopo mesi di silenzi nei corridoi e pause pranzo solitarie nella mensa, Matt cominciò a notare, soprattutto perché era il primo a viverle sulla propria pelle, alcune dinamiche comuni a tutti gli studenti, quelle dell’inclusione e dell’esclusione. All’interno del microcosmo universitario risultava fondamentale far parte di un gruppo, sentirsi inclusi e apprezzati, ma la barriera tra chi stava fuori e chi dentro era sottilissima, e bastava un errore da poco – una combinazione non azzeccata di vestiti, una battuta fuori luogo, una conoscenza, anche lontana, di qualcuno di quelli “fuori” – per scivolare dall’altra parte e trovarsi completamente solo. Matt comprese che la solitudine non era una sua esclusiva, ma il risultato di un sistema sociale che premiava i conformisti e puniva gli outsider. Chiunque altro avrebbe trovato un modo per integrarsi nel sistema, al costo di snaturarsi pur di far parte di una qualche comitiva, ma Matt era diverso, lo era sempre stato. Lui, che aveva sempre amato osservare il mondo dall’esterno, osservare le formiche ammucchiarsi con una lente di ingrandimento, per poi ottenere il pieno controllo su di loro e avere persino il potere di distruggerle, capì che la soluzione era ben diversa da quella che chiunque altro avrebbe trovato. Una notte invernale, chiuso nel dormitorio, avvolto da una calda felpa grigia e illuminato dal pallido bagliore dello schermo del suo portatile, come soleva fare fin dalla tenera età, scrisse le prime righe di codice di un’idea che avrebbe cambiato la sua vita, e quella di milioni di persone. Quella notte diede vita a Duck.com , una piattaforma online – che ben presto avrebbe preso il nome di social network –, creata per abbattere il muro della solitudine. In pochi giorni, Duck divenne l’argomento più discusso del college: tutti volevano entrare a farne parte, diventare “amico” l’uno dell’altro, interagire, pubblicare, condividere. Gli iscritti alla piattaforma furono decine, poi centinaia, migliaia e infine, alla fine dell’estate successiva, Duck divenne il primo social network a raggiungere il milione di utenti. Nel frattempo, Matt si era laureato con il massimo dei voti e aveva continuato a lavorare alla costruzione della piattaforma, espandendo il team di programmatori e aprendo la prima sede ufficiale dell’azienda. La piattaforma, nella sua versione iniziale, era un luogo accogliente, semplice, intuitivo, e, soprattutto, prometteva agli utenti ciò che a Matt e a quelli come lui era sempre mancato: un senso di appartenenza. Ben presto, tuttavia, comprese che la chiave del successo di Duck non era dato dalle connessioni e dalle amicizie che si potevano creare: le persone tornavano solo dove vi era conflitto, tensione, astio. Matt programmò l’algoritmo in modo tale da privilegiare contenuti polarizzanti, commenti negativi e discussioni. I post che generavano invidia, odio e indignazione risultavano quelli più cliccati e venivano spinti sempre più in alto, poiché tenevano gli utenti incollati alla piattaforma, alimentandola con il loro livore. Proprio come il foie gras, pensò: per permettere a qualcosa di crescere, è necessario alimentarlo continuamente. Duck crebbe a ritmi vertiginosi. Gli utenti si iscrivevano poiché attratti dall’illusione della comunità, ma restavano solo per le provocazioni e i contrasti. Il creatore osservava soddisfatto i numeri crescere esponenzialmente, come un esperto burattinaio: ogni nuovo utente, ogni litigio, ogni clic non era altro che un ulteriore chicco di mais per ingrassare il sistema. Più Duck prosperava, più Matt si arricchiva: entro la fine dell’anno successivo alla laurea, divenne il più giovane miliardario della storia. Da creatura invisibile spiaccicata silenziosamente sulle pareti dei corridoi universitari, Matt era ora tra le persone più cercate, intervistate, ammirate al mondo: le notti trascorse a programmare nel buio della sua stanzetta avevano presto ceduto il posto a party esclusivi, mentre i silenzi opprimenti erano stati soffocati dal frastuono di meeting aziendali, dalla musica martellante delle discoteche, e dalle risate sguaiate di persone superficiali che Matt sceglieva accuratamente per riempire il vuoto assordante della sua mente. Il ragazzo che un tempo osservava in disparte i gruppetti di studenti ridacchiare spensieratamente, era ora il sovrano di un impero costruito esattamente su quelle stesse dinamiche di esclusione e confronto. Esattamente come aveva previsto, Duck si era tramutato in una gabbia dorata per milioni di persone: un luogo impalpabile in cui le emozioni venivano forzate, alimentate e consumate, ingrossando l’algoritmo come il fegato di un’oca, destinato a crescere sempre di più, fino a diventare foie gras. Chi era l’unico fruitore di tale prelibatezza? Il giovane Matt, ormai divenuto arrogante e fanfarone. Quando esplose la pandemia, Duck era ancora il social network più utilizzato al mondo, il regno egemone della comunicazione globale. Il virus divenne rapidamente uno dei temi principali discussi sulla piattaforma, alimentando ulteriormente la macchina costruita da Matt: discussioni sui sintomi, presunte cure artigianali, teorie del complotto sui vaccini si moltiplicarono senza sosta. A questi si aggiunsero video che immortalavano uomini e donne nel momento della metamorfosi, tra i quali risultava quasi impossibile distinguere i veri da quelli falsi. Nell’era moderna, i social network avevano ormai sostituito i giornali come principali fonte di informazione. Tuttavia, come è facilmente prevedibile se si affida l’onere dell’informazione a una smisurata quantità di persone inesperte, spesso dilagava la disinformazione, sommergendo la verità come uno tsunami. Seguendo il medesimo principio progettato da Matt anni prima, la verità era secondaria, mentre ciò che contava davvero era mantenere gli utenti connessi, incollati al feed e fin troppo occupati a discutere e provocarsi l’un l’altro per accorgersi dell’infondatezza dell’argomento dibattuto. Non vi è da stupirsi dunque, se la reazione di Matt alle notizie riguardanti la pandemia fu cinicamente distaccata e quasi divertita. Per lui, il virus non era altro che l’ennesimo argomento da cavalcare per accrescere la popolarità di Duck. Il contagio non rappresentava per lui la benché minima preoccupazione: da anni aveva acquistato un’isola sperduta nell’Oceano Pacifico, dove si trasferì non appena comprese che l’imposizione della quarantena sarebbe valsa persino per lui. Circondato dalle sterminate e cristalline acque oceaniche, da palme, ville e piscine costruite appositamente per sé e per la servitù – ci teneva a riferirsi alle persone alle sue dipendenze con questa specifica denominazione –, gestiva comodamente la sua azienda nella più totale isolazione. D’altronde, era sempre stato una persona solitaria, e negli ultimi anni sentiva di aver fatto indigestione di vita sociale, a causa della sua fama magnetica. Aveva persino ripopolato l’isola con una particolare specie di roditore in via d’estinzione, che ora, privo di cacciatore naturale, proliferava a vista d’occhio, e divertiva con i suoi goffi e buffi movimenti, il giovane miliardario. Crogiolandosi nel suo delirio di onnipotenza, Matt non poteva che sentirsi completamente al sicuro dal virus che nel frattempo mieteva centinaia di migliaia di persone. Quando, una mattina, mentre osservava divertito alcune assurde discussioni complottiste sul suo feed, si rese conto di avere un leggero fastidio alla gola, non avrebbe mai potuto immaginare che si trattasse proprio del virus Circeus . Uno degli chef dell’isola era infatti stato contagiato mentre comprava i costosi approvvigionamenti necessari per il menù della settimana, durante uno dei suoi viaggi nella città dell’arcipelago limitrofo. In pochi giorni i trenta abitanti dell’isola – tutti naturalmente alle dipendenze della stessa persona – furono contagiati, trasformandosi uno dietro l’altro in animali delle più svariate specie. Mentre l’isola si popolava di maiali, cervi, coccodrilli, pappagalli e rettili di qualunque tipo, Matt, tronfio nella sua convinzione di essere invincibile, continuava a negare la possibilità di aver contratto il virus. Ben presto, tuttavia, si rese conto che qualcosa non andava: il collo gli sembrava teso, come se il tessuto sotto la pelle si stesse allungando, e sentiva un fastidioso formicolio in tutto il corpo. Quando si spogliò, notò un sottile strato di piume bianche emergere dai pori della pelle, mentre le dita dei piedi sembravano contrarsi e assumere un colorito tendente all’arancione. Nei giorni seguenti, la trasformazione avvenne inesorabilmente: al posto delle braccia spuntarono due goffe e pesanti ali, il muso si allungò in un becco arancione, le dita dei piedi si fusero fino a diventare zampe palmate, il collo si allungò a dismisura e le piume si espansero in tutto il corpo, in uno strato soffice e uniforme. Tentò più volte di chiamare qualcuno in suo aiuto, ma dalla gola fuoriuscivano soltanto dei fastidiosi e gutturali starnazzi. Matt era diventato un’oca, prigioniero in un corpo alieno che non gli apparteneva e in un mondo ostile, costruito da lui stesso. Ciò che tuttavia lo inquietava maggiormente, era il dolore interno, sordo ma costante: sentiva il fegato crescere, pulsare, ingrossarsi sempre di più, ad ogni respiro che emetteva con fatica. Due parole francesi gli risuonavano nella testa: foie gras, foie gras, foie gras. Agitando le ali e starnazzando in maniera fragorosa, giunse goffamente di fronte allo specchio della sua mastodontica camera da letto con vista sull’oceano. Osservò il suo riflesso, con quel collo troppo lungo e quelle zampe sproporzionate, piegò la testa di lato e sentì una strana sensazione: non paura, non pentimento per tutto il male che aveva causato al mondo; non colse neppure il paradosso del destino, che lo aveva trasformato proprio in quell’animale di cui si era cibato con gusto da bambino e il cui pensiero aveva influenzato spesso le sue scelte di vita. Avvertì solo una sensazione di calma agghiacciante: era solo una nuova fase, un’ulteriore trasformazione. Forse, pensò, era sempre stato un’oca, fin dall’inizio.